L’anno (scolastico) volge al termine, ed ecco arriva Babbo Natale. Sotto la barba si nasconde un insegnante di latino: il suo sacco è il registro elettronico e i suoi doni sono promozioni per tutti. Niente debiti e niente carbone, come farebbero quelle befane che si ostinano a correggere con le matite rossoblu e non cavalcano le renne del nuovo che avanza.



Arrendiamoci, ormai quasi nessuno sa tradurre, troppi spendono soldi in ripetizioni private, si ignora universalmente a cosa diavolo possa servire questa maledetta materia che travalica le capacità adolescenziali. Il latino è un problema generazionale: quale habitus di pazienza ci vuole per stare due ore su 8 righe, quando col touch le scorreresti in pochi secondi? e come convincere chi può trovare la versione già tradotta su Google che, anziché mangiare una torta già pronta in frigo, dovrebbe andare a comprare gli ingredienti e prepararla? Insegnare a tradurre significa convincere dei ragazzi che la torta finale sarà mille volte più buona di quella che trovano in frigo.



Intanto da anni si ripete il mantra secondo cui gli insegnanti devono fornire agli alunni “gli strumenti”. Io in casa ho martelli, trapani, cacciaviti e attrezzi vari: potrei montare delle mensole e fissarle al muro. Semplicissimo. Un giochino per chiunque s’intenda appena di falegnameria, o anche di lego. A me viene mal di mare solo a pensarci (forse perché per me “legno” è metonimia dantesca in luogo di “barca”). Mensole quanto profonde? e poi viti? o anche chiodi? o forse fischer? e il trapano con quale punta? e come faccio a montarla dritta? Ah, già, il calibro. Se lo metto bene. E se poi non regge il peso dei libri e cade? Immagino che lo stesso sperdimento colga i ragazzi davanti a una versione di latino. Semplicissima ai miei occhi: prima il verbo, poi il soggetto, quello chiaramente è il suo attributo, poi ci sono due ablativi, è ovvio; e quella preposizione va con quel sostantivo, non potrebbe andare con quell’altro, che è un dativo plurale e non sopporta ex. Io il giochino lo smonto e rimonto al volo, ma loro son lì a bestemmiare contro il cubo di Rubik.



Non è questione di strumenti, è questione di scopo. Non appena saper tradurre, ma sapere perché tradurre. Non che manchino solenni introduzioni settembrine al valore del latino o notti bianche — pallidissime — del liceo classico: manca un perché vivo, che dia gusto.

Qualche mese fa, mentre viaggiavo in pullman con alcuni ragazzi pugliesi, nei sedili vicini scorgemmo delle ragazze polacche. Improvvisamente in tutti i pugliesi insorse un irrefrenabile desiderio di conoscere parole polacche, frasi polacche, perfino canzoni polacche: si erano appassionati alla traduzione. Immaginate se invece un ragazzo pugliese, in assenza della bella polacca, decidesse, una mattina qualsiasi della sua vita, di imparare parole, frasi e canzoni polacche: poi alza gli occhi e si ritrova la sua vecchia professoressa di latino, praticamente madrelingua.

Solo la prospettiva di uno scopo (entrare in rapporto con la ragazza polacca) determina l’impegno con la lingua che permette di arrivare a quello scopo. Ed è perciò “la polacca” che serve, in ogni ora di latino. Non la predica sul fatto che un giorno lontano, se oggi imparate delle parole polacche, potrebbe anche capitarvi di parlare con un polacco qualsiasi e allora sì capirete e mi ringrazierete: ci vuole “una polacca” presente. Piaccia o no, gli insegnanti non possono preoccuparsi soltanto di preparare buoni piatti per la cena, ma devono suscitare la fame, altrimenti tutto ciò che preparano rimarrà nel piatto e andrà buttato. Alla fine della cena potremo anche presentare un conto salato, perché se tu non hai mangiato sono fatti tuoi, io i piatti te li ho portati: ma se nel nostro ristorante tre quarti dei clienti non mangia e un altro quarto vomita, bisognerà pur farsi qualche domanda.

Come? Cambiando strategia, senz’altro. C’è qualcuno che, al di là delle infatuazioni modaiole, discute seriamente di didattica del latino, a cominciare dal ricorso all’induzione (dalla traduzione alla grammatica) anziché alla sclerotizzata deduzione (dalla grammatica alla traduzione). Ma una squadra di calcio può cambiare tutti gli schemi che vuole: se i calciatori hanno ferri da stiro al posto dei piedi, perderà comunque.

Perciò aggirare i problemi non vuol dire che siano risolti: è chiaro che se al triennio non faccio più lingua latina ma solo quella che impropriamente chiamano “letteratura” (cioè metto 9 a chi mi ripete che Cicerone nacque nel 106 a.C. ad Arpino), autorizzo i colleghi di inglese a mettere 9 a chi non capisce neanche una puntata di Peppa Pig in lingua originale però sa ripetere che Shakespeare nacque nel 1564 in Inghilterra; ed è chiaro che, a quel punto, per mettere un debito al secondo anno dovrei avere un bidone dell’immondizia al posto del cuore. Se poi iniziano i saldi di fine stagione e per evitare ecatombi “scendo di mezzo punto ogni 5 errori”, perfino l’analfabeta che fa 40 errori non riesce a prendere un’insufficienza; idem se alla versione metto 4 ma poi bilancio con l’8 dell’orale. Ecco, questi giochi di prestigio nascondono il problema agli occhi di alunni, genitori, insegnanti e presidi compiaciuti dei numeri: non è detto che chi prende 9 in pagella sappia davvero tradurre. Perché anch’io posso compiacermi di aver fatto migliaia di gol: a casa mia, con mio figlio in porta e la pallina di spugna, ma se alla fine sono i numeri a contare, allora posso guardare dall’alto anche Cristiano Ronaldo.

Invece Lucrezio docet: affinché un bambino beva una medicina amara dobbiamo cospargere di miele gli orli del bicchiere, ossia far sentire il dolce nella fatica che il latino richiede. Ma fra miele e medicina non possiamo dimenticare lo scopo: che il bambino stia bene. La medicina della lingua latina a quale salute e a quale bambino serve? Gli strenui difensori della medicina dimenticano la salute del bambino esattamente quanto chi la sminuisce e ormai, anziché zuccherare gli orli, rifila direttamente la Coca-Cola, che è più dolce della medicina quanto la cosiddetta “civiltà latina” è meno impegnativa di tradurre l’Eneide. Capisco che ai ragazzi piacerà di più, ma se non serve più la medicina, vuol dire che siamo tutti guariti, non ne ha più bisogno nessuno. Iniziamo a guardare in faccia i nostri alunni pensando che è statisticamente più probabile che fra loro ci sia un futuro killer anziché un futuro insegnante di latino e rispondiamo in prima persona a questa domanda: a quale bisogno umano risponde la traduzione del latino? quale “polacca”, quale bellezza all’orizzonte?