Per effetto del decreto legislativo 62/2017, anche gli insegnanti di religione faranno parte quest’anno della commissione di esame negli esami finali di terza media. E scoppiano, immancabili, le polemiche.

Cosa c’è di male se un insegnante di religione, dopo aver seguito dei ragazzi di una scuola secondaria di primo grado per tre anni, aver instaurato con loro una relazione educativa, averli introdotti non solo a una serie di contenuti ma a un metodo di approccio alla realtà, essersi già assunto la responsabilità di valutarli insieme agli altri docenti durante il percorso tante altre volte, vuole partecipare a pieno titolo anche agli esami finali del ciclo? Niente, risponderemmo subito se si trattasse di italiano o matematica o di qualunque altra disciplina che non fosse l’insegnamento della religione cattolica. Anzi, si tratterebbe solo dell’esercizio di un diritto-dovere che rientra pienamente nella sua funzione educativa e formativa in quanto docente, senza parlare poi del sacrosanto diritto dei suoi studenti a essere valutati.



Tuttavia, questi criteri di buon senso pedagogico, prima ancora che giuridici, cadono se parliamo di insegnamento della religione cattolica e si trovano mille problemi. Da una parte, il solito manipolo di gruppi e associazioni che per giustificare la loro esistenza ha levato gli scudi in difesa della laicità della scuola, gridando allo scandalo per l’ennesimo atto di un presunto “processo sotterraneo” volto a rendere di nuovo l’insegnamento della religione obbligatorio e ridargli potere nella scuola. Poi ci sono i dirigenti, che lamentano difficoltà di tipo organizzativo. Infine, incredibile ma vero, persino diversi insegnanti di religione sono scontenti per questo provvedimento, perché, dicono, si troverebbero a fare le comparse in quanto, non avendo il voto, non conterebbero niente.



In generale, e su un piano formale, basterebbe ricordare a tutti che l’insegnamento della religione cattolica non è un insegnamento obbligatorio, ma una volta scelto dalle famiglie diventa curricolare per chi se ne avvale e deve essere valutato come ogni altra disciplina. In sede di esame finale, inoltre, si valuta collegialmente tutto il percorso degli studi fatti nel triennio.

Ma questa, in un certo senso, è accademia, forma. C’è in gioco una questione ancora più profonda forse, che riguarda tutto l’aspetto della valutazione e tutte le discipline. In chi contesta la presenza degli insegnanti di religione agli esami, anche in tanti insegnanti di religione, si percepisce una concezione del momento valutativo come esercizio di un potere decisivo sugli studenti in cui consiste l’autorità dell’insegnante e il cui esercizio è circoscritto alle sole verifiche ed esami.



In realtà apprendimento e valutazione sono in un rapporto strettissimo perché quest’ultima “catalizza l’apprendimento insegnato” (Mazzeo). La valutazione è un momento di apprendimento, dove imparano tutti — studente, insegnante e famiglie. Come tale, la valutazione non è solo alla fine di un percorso più o meno lungo di studi, ma è continua, permanente, parte integrante della relazione educativa tra docente e alunno. La valutazione non è questione di potere, insomma, ma espressione di un’autorità preesistente nella relazione educativa sotto forma di un adulto che giudica per far crescere il proprio alunno e introdurlo sempre più nella realtà della sua disciplina.

Gli esami, in tutto questo, sono solo un momento, importante, ma non esauriente, dalla partecipazione al quale però nessun insegnante che ha passione per il suo lavoro e amore per i suoi studenti può essere escluso o chiamarsi fuori.