Da oltre un secolo la scuola occidentale è alla ricerca di pratiche di apprendimento efficaci e adeguate ai cambiamenti in corso. Chi ha un po’ di familiarità con la storia scolastica ricorda i tentativi intrapresi all’inizio del Novecento dalle pedagogie attivistiche (da Dewey a Claparède, fino a Freinet e alla nostra Montessori) per valorizzare gli interessi infantili e avvalersene per migliorare l’apprendimento. 



Di qui in poi si sono susseguiti tanti altri propositi, alcuni molto esposti sul piano della libera (quasi libertaria) capacità di esplorazione e conoscenza degli studenti (ad esempio Neill con la sua “non scuola” di Summerhill), altri impegnati, al contrario, a prevedere sequenze rigorosamente preordinate di unità didattiche in cui presentare i contenuti dei programmi di insegnamento (i teorici della pianificazione curricolare sulla scia del neocomportamentismo di Skinner). 



La disponibilità delle tecnologie, il facile accesso al web e al suo immenso deposito di informazioni, la facilità con cui bambini e giovani maneggiano la digitalità hanno rilanciato su basi in parte nuove il tema. Da qualche decennio pedagogisti e psicologi, studiosi di didattica e insegnanti esperti sono tornati a interrogarsi sulla possibilità/necessità di mettere in campo nuove strategie per rendere più produttivo l’apprendimento. 

Se in passato l’obiettivo era quello di coltivare gli interessi degli alunni e mobilitarne le risorse dando per scontato che sussistesse un patrimonio culturale cui fare riferimento, in tempi più ravvicinati l’interrogativo si è spostato piuttosto su “cosa” apprendere. Qui sta precisamente il punto: soltanto — come spesso si sente dire — “apprendere ad apprendere” e abilitarsi a una serie di esercizi mentali cui ricorrere per risolvere problemi oppure immagazzinare conoscenze, su queste elaborare una riflessione personale e, quindi, approdare alla capacità di collegare sapere e intervento sulla realtà?



Questa duplice prospettiva sta producendo nelle scuole (e più in generale in quanti sono interessati alla formazione delle giovani generazioni) un grande disorientamento per due principali ragioni. 

La prima è legata alla convinzione che la scuola “non serva” se non è connessa in modo stretto — direi quasi in forma di dipendenza — agli aspetti pratici della vita. La scuola valida ed efficiente sarebbe solo quella che fornisce conoscenze rapidamente acquisibili e immediatamente spendibili. Perché dannarsi l’anima con Dante e Kant il cui studio costa fatica e tempo, quando di queste nozioni non ce ne faremo nulla nella vita se non — forse — per partecipare a qualche quiz televisivo? L’esaltazione della competenza (fino, in qualche caso, a farne una vera e propria ideologia) porta direttamente verso questo esito: è valida soltanto quella scuola che allena le menti a ricollocarsi di continuo nell’era del cambiamento permanente. 

Una seconda ragione riguarda invece il disordinato inseguimento di nuove pratiche didattiche e la messa sotto accusa della conoscenza trasmessa. In alternativa gli innovatori preferiscono altre modalità di insegnamento/apprendimento come, per citare quelle più note e anche più diffuse, il problem solving, il cooperative learning, la flipped classroom, la didattica digitale e laboratoriale. Il vantaggio di queste soluzioni sarebbe quello di consentire la “costruzione” della conoscenza da parte degli studenti anziché vedersela squadernata dagli insegnanti e dai libri. Il ruolo dei docenti andrebbe di conseguenza drasticamente modificato: non sarebbe più importante essere esperti in un determinato ambito della conoscenza quanto saper soprattutto organizzare gli esercizi mentali necessari per la perfetta padronanza della variabilità delle procedure.

L’aspetto più paradossale del nuovismo didattico è che non esiste nessuna affidabile documentazione sperimentale che le soluzioni alternative come quelle appena citate siano davvero più efficaci della pratica didattica trasmissiva (la direct instruction recentemente rilanciata da Siegfried Engelmann e Wesley C. Becker) se e quando, ovviamente, essa è condotta non a casaccio, ma a regola d’arte e anche auspicabilmente integrata da attività laboratoriali. 

Si viaggia generalmente a vista sulla base di intuizioni e simpatie personali, facendo passare per “innovazioni” proposte didattiche che in alcuni casi contano almeno un secolo di vita, interessanti e stimolanti sul piano delle esperienze d’élite che a suo tempo le hanno prodotte, mai entrate, tuttavia, finora nel patrimonio scolastico corrente. E’ questo il caso, per citare un esempio, delle varie metodologie ispirate al problem solving di eredità deweyana, rilanciato da Bruner mezzo secolo dopo Dewey e divulgato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità a partire dall’educazione sanitaria. 

Troppo semplice e anche alquanto superficiale fare a meno dell’idea che il sapere si possa narrare e trasmettere (e non solo scoprire da soli, esperienza ovviamente non esclusa, ma non sufficiente), sempre che la comunicazione dei contenuti del sapere sia fatta con quelle caratteristiche di linearità, chiarezza, gradualità, semplicità di linguaggio, predisposizione di materiali di agevole comprensione che sono regole d’antico conio e raccomandazioni sempre utili.