Da qualche giorno sulla colonna a scorrimento a destra del sito Invalsi compare una nota dell’istituto a proposito di uno dei quesiti del questionario studente somministrato agli alunni di V primaria. La nota si deve allo scandalo suscitato dalle domande che, in effetti — e sappiamo quanto importanti siano le domande per i bambini — inducono ad assumere in modo scontato un certo modello di realizzazione di sé determinato dal denaro che un giorno si riuscirà a guadagnare e dalla possibilità di acquistare tutto ciò che si vuole. Un modello di fulfillment — si direbbe in inglese — che ha una cifra… economica. 



Lo scopo del gruppo di domande è, dice la nota Invalsi, misurare la percezione “che le allieve e gli allievi della scuola primaria hanno del loro futuro, ed è una delle dieci domande volte a caratterizzarne le aspettative in relazione all’andamento del loro esito a scuola, alla percezione delle caratteristiche delle prove Invalsi, ai risultati scolastici dell’anno precedente, all’aver partecipato alla scuola dell’infanzia, a dati anagrafici (maschio/femmina; anno e mese di nascita), a definizioni di sé che la/lo individuano e ai rapporti con i compagni”. Inoltre la batteria di domande include lo specificare se si è femmina o maschio e quindi correla quanto sopra al genere.



Ora, posto che i bambini oggi avranno già dimenticato queste domande e che andrebbe anche verificato quanti di loro le abbiano effettivamente comprese — per quanto “concrete” possano essere le situazioni richiamate —, certo è che esse meritano una riflessione che vada oltre lo scandalo da social media cui purtroppo tendiamo a ridurre tutto. Riflessione che meriterebbe di essere corredata da uno studio attento delle risposte date.

Le domande possono aprire o chiudere. Offrono una prospettiva, un orizzonte alle aspettative. Anzi direi che già il termine “aspettative” usato dall’Invalsi rimanda già alle Great expectations di Dickens, e sono una traduzione culturale precisa di qualcosa di più profondo per cui esistono termini come “aspirazione” o, ancor più, “desiderio”. C’è proprio una differenza di apertura tra i diversi termini. “Aspettativa” è un termine che affida al soggetto una sorta di “misurino” di quanto la sua vita sarà bella e rimanda a “aspettativa di successo” ed espressioni simili. “Aspirazione” invece fa venire in mente le domande che una volta gli adulti facevano ai bambini, invitandoli a immaginarsi nel futuro: “cosa vuoi fare da grande?” “L’astronauta?”. “Desiderio” è letteralmente la “mancanza delle stelle” che è ciò che muove l’astronauta, i poeti, gli innamorati, i pittori…



E’ giusto che i bambini siano da subito sfidati a dire cosa desiderano, cosa gli interessa realizzare nella vita, cosa gli piace. Ma chi ha tradotto questo livello di provocazione in quella batteria di domande ha operato una riduzione di prospettiva da due punti di vista: ha ridotto tutta la portata del desiderio che pulsa in un giovane a una cifra di censo economico; ha ridotto la scuola e lo studio a un’esperienza utilitaristica che trova il suo unico fine — telos, in greco — nell’esito, nei voti, nel successo che orienta la motivazione a un livello estrinseco rispetto a ciò che lo studio è e dovrebbe essere: l’incontro con la realtà e il suo mistero. La matematica si può studiare per scoprire tutta la portata misteriosa di questo linguaggio che permette questo dialogo eccezionale tra l’uomo e la realtà, oppure “per passare il compito”, per “alzare il credito” e avere i numeri per fare i test di medicina cui ci si può “addestrare” — come recita un pannello pubblicitario di un ateneo italiano appeso al piano terra di un liceo scientifico della mia città. Perché i medici guadagnano e possono avere una bella casa… Nessun pauperismo, per carità. Va bene la bella casa. Ma per fare una casa bella ci vogliono degli uomini e donne vere che la abitano. Che vogliono la luna, diceva il Caligola di Camus. Perché la bella casa è la casa che non è fine a sé stessa, ma è aperta agli amici, è, appunto, una casa e non un assemblaggio di belle cose.

Qual è allora l’aspettativa che abbiamo noi adulti verso le giovani generazioni? Cosa pensiamo possa essere lo studio per loro? E cosa è la scuola? Cosa è la vita? Forse diamo troppo per scontate queste domande. Lasciamole aperte. E l’Invalsi sa bene la differenza tra domande aperte e domande chiuse.