Era ovvio che a qualcuno non piacesse l’idea di descrivere la scuola come un’azienda. Tra questi c’è Pierluigi Castagneto che sulle pagine del Sussidiario si irrita per questo mio paragone. Che la scuola purtroppo sia diventata negli ultimi decenni un’azienda — come ho scritto — è un dato sotto gli occhi di tutti. Che non funzioni come un’azienda efficiente — come spiega lui —, anche. Ma questo non toglie che tutto tenda ad aziendalizzarla, cioè renderla un freddo strumento di produzione di informazioni, sempre meno capace di dialogo e di fare cultura.
Lo spiegava già Massimo Trovato sul Sole 24 Ore del 4 giugno 2015: “la scuola è un’azienda perché anche la sua missione richiede la combinazione ottimale dei fattori produttivi attraverso l’impiego di tecniche manageriali efficaci”. Questo dato viene suffragato anche dall’Economic Journal del maggio 2015 e da Alessandro Giuliani nel febbraio 2018 sul quotidiano online tecnicadellascuola.it dove nell’articolo “L’autonomia ha portato alla scuola-azienda” riporta un importante convegno dedicato a questo tema al liceo Torquato Tasso a Roma. Anche la Nuova Rivista Letteraria è critica: “Il modello della scuola azienda non funziona perché il suo ruolo è il recupero dei saperi del passato e il saper connettere i pensieri, se le si toglie questa funzione diventa solo una caserma (…). Quando si chiudono le scuole di sabato mattina per risparmiare sul riscaldamento, vuol dire che c’è qualcosa che non va. Alla scuola non bisogna sottrarre la capacità di formare i cittadini garantendo il diritto allo studio, alla cultura e all’istruzione come volevano i padri costituenti”. Anche Paola Mastrocola è inquieta nei confronti di “una scuola delle verifiche e dei test, delle prove oggettive; una scuola tecnico-pratica che mi chiedo come possa mai arrivare ad appassionare qualcuno” (Togliamo il Disturbo, 2010).
Che poi come azienda non funzioni, non toglie che il tentativo di aziendalizzarla ci sia da decenni, laddove per azienda intendo non l’efficienza, che è un attributo, ma la burocratizzazione e il meccanicismo, che è la sostanza. E non mi sembra un grande progresso. “Ci si deve attenere al programma”. “Ci si deve attenere agli orari” si sente ripetere a scanso che qualche prof faccia più di quanto programmato. Ed è scomodo rendere insoddisfatta “l’utenza”, e per questo si arriva troppo spesso all’arrendevolezza immotivata. Con tutte le eccezioni, perché di dirigenti e docenti in gamba e di alto livello ce ne sono molti. Ma, ribadisco, si trovano dentro un meccanismo più grande di loro, tanto che un insegnante su due si sente professionalmente sottovalutato, come riporta un recente sondaggio.
Pedagogicamente è una sconfitta: l’educazione dei ragazzi è diventata oggi “offerta formativa”. Cioè non un cammino comune, ma un rapporto di domanda-offerta. Dove la domanda, purtroppo, non è quella dei ragazzi, ma quella dei genitori, con le loro necessità di competere, con i loro orari e ferie da rispettare, con la loro inconsapevolezza che l’educazione non è demandabile alla scuola ma è un percorso condiviso, mentre molti di loro si aspettano il figlio sapiente (o con bei voti, tanto basta) senza doverci mettere del loro.
Io ho dato alla perdita di rapporti personali genitori-docenti, alla burocratizzazione dei giudizi, alle fredde comunicazioni telematiche scuola-famiglia (ma non vi sembra eccessivo mettere in rete assenze, voti del ragazzo come se fosse automatico che i genitori non si fidino, come se non potesse lui/lei pensare di dirli a casa da sé al momento giusto, come se non ci fosse dialogo con gli insegnanti?) il valore e l’appellativo di aziendalizzazione e ho spiegato che è una preponderante causa delle incomprensioni famiglia-scuola, che possono addirittura degenerare in liti. Chi non è d’accordo critichi pure, ma portando dati e fatti, usando riguardo per le idee altrui, e dando una spiegazione convincente.