La mia prima istintiva reazione alla lettura del libro di Damiano Previtali, Il sistema nazionale di valutazione. Una rilettura (Utet 2018) è stata “Non lo sapevo!”. Nonostante abbia partecipato personalmente ed attivamente ad alcuni passaggi rilevanti descritti nel libro (dalla stesura del Libro Bianco sulla scuola alla progettazione di Vales, passando per l’analisi valutativa del progetto Vsq, Valutazione per lo sviluppo della qualità delle scuole), ho trovato la lettura del libro molto provocante, perché ricostruisce quasi venticinque anni di politica scolastica in Italia (dal 1990 al 2013) seguendo la chiave delle politiche valutative del ministero dell’Istruzione.
Il libro si focalizza sulla genesi del Sistema nazionale di valutazione (Snv) del sistema scolastico italiano, divenuto legge nel 2013, e si svolge in quattro passaggi. Apre il volume una introduzione molto autoironica, dove cinque pagine di glossario introducono il lettore nel rompicapo degli acronimi che sono indispensabili per l’orientamento nelle pagine successive di un lettore digiuno della materia (anche se sorge l’interrogativo del perché un lettore digiuno potrebbe volersi orientare in un ginepraio istituzionale di tale fattezza). Segue un capitolo di ricostruzione storica, dove l’autore presenta una selezione (ovviamente soggettiva) di episodi che hanno anticipato alcuni temi che sono poi diventati in modo più o meno coerente gli elementi costitutivi del Snv introdotto legislativamente nel 2013 ed entrato a regime nel 2014. Il terzo capitolo discute dell’approccio valutativo sottostante il disegno del Snv, mentre il quarto ed ultimo capitolo accompagna il lettore in una lettura critica del testo di legge, usando box illustrativi per richiamare l’attenzione sulle questioni irrisolte/inattuate di quel progetto legislativo.
La chiave interpretativa del libro mi piace identificarla nell’epigrafe: “Un libro è un’opera del destino” (Carl Gustav Jung). Nel leggere il libro di Previtali ci si rende gradualmente conto di come il disegno istituzionale non sia frutto di una pianificazione razionale (quella che gli scienziati politici chiamano optimal insititutional design), ma sia piuttosto il sedimentarsi graduale di tentativi più o meno corredati di successo.
Per questo l’innovatore (e Previtali ha dedicato una vita in questa attività) lavora di cesello nella scrittura delle norme, al fine di introdurvi principi anticipatori di novità colte attraverso sperimentazioni, desunte da esperienze straniere o anche solo intuite dalle esperienze in corso. Non è sicuro che dell’innovazione resterà traccia duratura, anzi espone il nuovo principio al giudizio della storia: se una novità si consoliderà nei comportamenti degli attori sociali, essa diventerà parte costitutiva del sistema, anche perché avrà trovato una sua coerenza con altri aspetti. Alternativamente ricadrà nell’oblio da cui era venuta. È il caso per esempio della valutazione degli insegnanti: dal libro apprendiamo che la lungimiranza di Aldo Moro, ministro dell’Istruzione nel 1958, aveva previsto i concorsi per merito distinto, che permettevano ai docenti migliori di accelerare la loro carriera retributiva. Il tema diventa carsico fino al 1990, quando il ministro Berlinguer cade sul “Concorsone”, che prevedeva una quota preassegnata di possibili vincitori (in questo anticipando di gran lunga il futuro ministro della Funzione pubblica Brunetta). Ci riprova la ministra Moratti, con la sperimentazione Valorizza e con la sottosegretaria Aprea (che presenta un disegno di legge che ridisegna la carriera docente in tre livelli), e ci ritorna infine il presidente del Consiglio Renzi con la valorizzazione del merito, introdotta nella Buona Scuola e definitivamente affossata dalla ministra Fedeli con il rinnovo dell’ultimo contratto per il comparto scuola.
L’autore sembra non prendere posizione sul tema se sia giusto o sbagliato differenziare le carriere insegnanti (in termini di responsabilità, di prospettive di carriera e conseguentemente anche dal punto di vista retributivo). Egli si limita a registrare che in sessant’anni di storia repubblicana, il mondo della scuola non ha digerito in modo permanente alcuna norma che differenziasse il mondo insegnante. Previtali suggerisce (assunto n.1) che la logica di sistema collocherebbe la valutazione degli insegnanti all’ultimo posto in una sequenza logica: “Pertanto la sequenza logica impone che prima si sviluppi un buon disegno di valutazione degli apprendimenti, a seguito delle scuole, per poi arrivare a quella delle professionalità, a partire dai dirigenti e, solo a seguito, dei docenti”.
E tuttavia questa risorgenza periodica del tema non può che incuriosire il lettore, che viene indotto ad interrogarsi sulle radici di questo altalenante atteggiamento. Di nuovo l’autore ci viene in soccorso: “Oltre vent’anni di forti cambiamenti di direzione e contraddizioni, che a volte hanno visto la scuola come campo di battaglia, non possono avere al loro interno un disegno razionale e condiviso: solo un irremovibile funzionalista sociale potrebbe sostenere una tale ipotesi”. Non ci sarebbe razionalità in un conflitto sociale, che vedrebbe contrapposti da un lato la maggioranza degli insegnanti difesi dalle organizzazioni sindacali, e dall’altra una sequenza di ministri di vario orientamento e personalità, che avrebbero tentato di volta in volta di riaffermare alcuni principi regolatori.
Difficile condividere integralmente tale tesi. Anche se ovviamente Previtali non si prefiggeva di scrivere un trattato sociologico sul ruolo della scuola nella riproduzione della stratificazione sociale e nella sua legittimazione, tuttavia la lettura di questo saggio non fornisce indicazioni degli attori in conflitto. È curioso per esempio che gli episodi che vengono richiamati nella ricostruzione storica non vengano sempre ricollocati in riferimento ai ministri e ai sottosegretari in carica, quasi che sia possibile tracciare una storia impersonale dei cambiamenti istituzionali. Questa strategia espositiva ha molte ragioni di essere: in un sistema burocratico in cui una norma per diventare attuativa richiede una legge (o un decreto ministeriale), a cui devono fare seguito dei decreti attuativi, che a loro volta necessitano di regolamenti che spesso devono essere accompagnati da regolamenti, che senso ha trovare un colpevole? Nelle burocrazie ministeriali (e il Miur non fa eccezione) decine di mani scrivono e riscrivono le norme, spesso snaturando l’intento originario del legislatore. Eppure i ministri non sono irrilevanti, tanto più quando hanno una visione di come il mondo della scuola dovrebbe operare. Basti solo ricordare la forma che ha preso in Italia il dibattito (e le conseguenti politiche di disegno ordinamentali) sugli indirizzi della scuola secondaria, dal biennio unico di Berlinguer alla controriforma di Moratti per finire con la “politica del cacciavite” di Fioroni.
Se facciamo astrazione dalla quotidianità dei cambiamenti intervenuti nel corso dei 23 anni coperti dal libro, la morale che se ne può trarre è che un sistema nazionale di valutazione della scuola ha preso forma solo a due condizioni (che erano apparse evidenti nella sperimentazione di Vales che anticipò molti dei principi ispiratori del Snv): che il sistema fosse centrato sulla autovalutazione (seppur corroborato da un valutazione esterna, che forse non sorprendentemente tarda a decollare in modo sistematico) e che non avesse sanzioni di tipo finanziario, né a livello di scuola né tantomeno a livello di singolo insegnante.
Colpisce per confronto quanto accaduto a livello dell’università, dove in un intervallo di tempo molto più accorciato viene introdotto il principio della valutazione esterna accompagnata da premi e sanzioni: la legge istitutiva dell’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario (Anvur) è del 2006, le prime conseguenze sul finanziamento delle università (Ffo) prendono forma nel 2012 (seppure in modo graduale e con clausole di salvaguardia). Lo stesso ministero sembra adottare due pesi e due misure. È solo questione di diverso peso elettorale, dal momento che il personale della scuola supera il milione di addetti, mentre quello delle università non raggiunge un decimo della stessa cifra? O è una diversa logica che ispira due funzioni formative: istruzione obbligatoria per la formazione delle competenze di base per tutti nella scuola (nella logica dei Lep, livelli elementari di prestazione), contro la selezione sulla base delle competenze acquisite nell’università (nella logica della compartecipazione tra pubblico e privato nell’investimento in capitale umano)? O ancora, il diverso atteggiamento adottato verso la scuola e verso l’università può forse essere ricondotto ai diversi livelli retributivi e al diverso carico di lavoro richiesti rispettivamente ad insegnanti e professori universitari? Eppure entrambe le categorie sono state investite da analoghi processi riorganizzativi, che hanno investito la pubblica amministrazione nell’ultimo decennio (blocco del turn-over, congelamento retributivo, aumento dei carichi di lavoro). Difficile trovare una risposta sul perché di questa schizofrenia ministeriale. Può essere che Previtali abbia di nuovo ragione, quando afferma che è impossibile cercare un filo logico nell’irrazionalità dei processi politico-decisionali. Questo però non ci esime dal domandarci se una logica non possa essere attribuita agli eventi, seppure a posteriori e senza personalizzazioni.
E qui vorrei aprire un altro tema, che si nasconde tra le pagine del libro. Il Snv che è tormentatamente emerso in questi vent’anni è valso lo sforzo di coloro che hanno operato per la sua messa a regime? Forse non è ancora il momento per valutare un sistema di valutazione. Previtali sembra convinto della sua coerenza interna, e nella terza parte del libro ne illustra i principi ispiratori: l’organicità dell’approccio sistemico, la sua semplice linearità, il suo carattere pluralistico ed evolutivo attraverso la partecipazione democratica degli attori che operano nella scuola. L’autore concepisce il processo valutativo come un processo in itinere, che suggerisce una naturale direzione indirizzata al miglioramento del processo educativo e della formazione delle competenze.
Un lettore più disincantato fa però fatica a condividere questo ottimismo della volontà, perché molte appaiono le assenze che caratterizzano il Snv. Il sistema attuale non sembra essere riuscito ad andare al di là dei test Invalsi come misura dei risultati, così come non è riuscito a focalizzarsi sul processo didattico per come congiuntamente attuato dal gruppo insegnante che opera sulle classi. L’organizzazione gerarchica all’interno delle scuole è rimasta un’area grigia, in cui da un lato le prerogative della funzione dirigente sono state oggetto di rimaneggiamenti ripetuti, ma dall’altro la valutazione dell’operato dirigenziale (anche da parte degli insegnanti sottoposti) è stata diluita fino a renderla inefficace come strumento di attuazione delle direttive del governo centrale.
Ovviamente non disponiamo di un controfattuale che ci permetta di dire se il sistema della scuola sarebbe stato migliore o peggiore, qualora avessero prevalso altri principi valutativi che pure hanno attraversato come meteore il dibattito sulle politiche scolastiche di questi anni. Tuttavia una chiave di lettura dialettica dei cambiamenti intervenuti lascia intravedere molte aree problematiche irrisolte, che lo stesso Previtali non manca di illustrare nei box che accompagnano la lettura commentata del testo legislativo nella quarta parte del libro. Non vorrei togliere all’autore il gusto di rispondermi con la puntuale citazione tratta dalla Vita di Galileo di Brecht riportata in chiusura del volume: “Che sarebbe molto più utile alla discussione, signor Galilei, se voi ci esponeste gli argomenti cui siete indotto a supporre che, nella suprema sfera dell’immutabile cielo, possano darsi stelle ruotanti liberamente”.
Mi limiterò pertanto soltanto a richiamare un ultimo aspetto su cui il libro di Previtali ha sollecitato la mia attenzione. Laddove illustra il terzo assunto di funzionamento del Snv (“un sistema con un disegno organico”), Previtali si focalizza sull’autovalutazione come processo migliorativo: “In effetti nel processo di autovalutazione, e in particolare nella definizione del Rav, si chiede di collegare i processi agli esiti, per meglio dire gli obiettivi di processo (processi) alle priorità (esiti), non in una dimensione meccanicistica di causa-effetto, bensì in una dimensione di progetto per il miglioramento. In sostanza, la scuola deve fare bene la scuola e i docenti devono curare i processi di insegnamento senza preoccuparsi di misurare gli scostamenti fra variabili dipendenti ed indipendenti. Solo la degenerazione dei sistemi di valutazione può chiedere a docenti e dirigenti di brutalizzarsi in competenze che non hanno, mentre dobbiamo chiedere loro di capire, anche attraverso gli strumenti del Snv, quali sono i processi da curare e presidiare per promuovere il miglioramento” (sottolineatura mia). Non starò qui a disquisire sulla etimologia della parola “valutazione”, se non per ricordare che nasce dal “dare un prezzo” ovverosia dalla capacità di misurare se un’alternativa valga più o meno di un’altra. La valutazione è a mio parere un processo oggettivo che permette di dire per esempio se la pratica educativa della flipped class produce risultati migliori o peggiori della didattica frontale tradizionale. All’estero si fa molta ricerca su quelle che vengono chiamate evidence based policies, ovverosia le pratiche educative vengono valutate in termini di efficacia, e le scelte dei politici spesso si ispirano a quei risultati. A voler forzare il punto di vista dell’autore, si potrebbe sostenere che ogni processo educativo può essere giudicato solo sulla base dell’intenzionalità dell’educatore, e che pertanto ogni prassi educativa è per sua natura inconfrontabile (data l’unicità di educatore, di educando e della loro relazione) e quindi invalutabile. Da qui l’autovalutazione resta di necessità l’unica opzione aperta al politico che abbia a cuore il tema della responsabilità nell’uso delle risorse.
Personalmente non ripongo grande fiducia in un approccio meramente quantitativo ai processi formativi, e istintivamente condivido il punto di vista dell’autore, seppure per ragioni parzialmente diverse. La scuola è un sistema produttivo organizzato come una cooperativa, e tutti i tentativi di riorganizzarlo secondo principi managerial-dirigenziali sono probabilmente destinati all’inefficacia. Una entità di gruppo può essere valutata ed incentivata solo come gruppo (come il progetto Vsq aveva cercato di dimostrare), lasciando che risolva al suo interno le proprie contraddizioni. Ogni insegnante è probabilmente il miglior valutatore dell’operato dei propri colleghi, e i colleghi più anziani sono in media più esperti dei colleghi più giovani. Il problema della valutazione diventa quindi quello di elicitare questa conoscenza diffusa e spesso intenzionalmente nascosta: solo in questo modo il processo migliorativo ha qualche speranza di efficacia, perché non si traduce in adempimento burocratico (come molti piani di miglioramento rischiano di essere) ma lascia il potere decisionale nelle mani degli attori rilevanti.