Sorrisi quando, tempo fa, di fronte alla richiesta di cercare in un testo delle parole ed illustrarne il significato, uno studente di terza media, in primo banco e tra i più bravi della classe, alzò la mano e mi chiese se, quindi, doveva fare un disegno. Ci misi un attimo a comprendere che la sua domanda era assolutamente seria, e che nella sua testa questo termine era collegato alle “illustrazioni” di chissà quale libro della sua infanzia: quei disegni cioè che mostrano qualcosa dando luce alle parole. Non so se lo sospettasse anche lui, ma quanto mi chiese fece affiorare in me un altro dei verbi che uso quando formulo domande per guidare i miei studenti a comprendere o stendere un testo: il verbo “argomentare”, risalendo la cui corrente si arriva, per altre vie, allo stesso concetto di qualcosa che illumina. Deriva infatti, questo termine (come il verbo arguire e l’aggettivo arguto) dalla base nominale *argu-, “brillantezza”, sviluppatasi poi nel senso di “esporre chiaramente, mettere in luce” e quindi “dimostrare”.
Non ha nulla di banale perciò la sua domanda, soprattutto se si pensa che una scrittrice come Flannery O’Connor, i cui racconti conquistano grazie alla capacità di mostrare il mondo attraverso particolari concreti e amati, ha affermato che qualsiasi disciplina può aiutare a scrivere: “la logica, la matematica, la teologia, e senz’altro e in special modo il disegno. Qualsiasi cosa vi aiuti a vedere, qualsiasi cosa vi induca a guardare” (F. O’Connor, Nel territorio del diavolo).
Se l’occasione fa l’uomo ladro e l’insegnante ha davanti una classe eterogenea, se si è alla fine dell’anno e si sono in tutti i modi promosse capacità di comprensione e rielaborazione di un testo attraverso domande puntuali ed esercizi mirati di scrittura, allora ci si può permettere di tentare un esperimento, arrivando indirettamente all’obiettivo. Se ci si mette poi un’interminabile fila alla cassa di un supermercato in cui distrattamente si apre Pinterest dal proprio dispositivo e ci si imbatte in una serie di manifesti minimalisti di produzioni cinematografiche, il gioco è fatto.
Da ultimo, in questa concatenazione di fortunosi eventi, il caso volle che i primi manifesti che ho trovato riguardassero proprio un film che, per diversi motivi, avevo appena fatto vedere alla mia classe e non avevo ancora avuto occasione di riprendere. Ne ho scelti sei, per l’indomani, e li ho mostrati in classe, chiedendo agli studenti di descriverli facendo emergere gli elementi del film che ciascuno dei cartelloni mostrava. Tra le loro parole e le mie domande su come fosse organizzato lo spazio e perché, e tra le mie domande e le loro parole che facevano accorgere anche me di particolari che io stessa non avevo notato, si componevano le storie della vita incredibile di Edward Bloom, protagonista del film Big Fish di Tim Burton. In uno dei manifesti, un ragazzo con una chiave al collo ha lo zaino in spalla, un cappello, ed è ritratto in cammino; sotto di lui, la sua ombra si allunga, a forma di pesce: “È perché il viaggio e il cammino sono importanti nel film”, “La sua ombra è così perché è lui il pesce più grosso, che non si lascia mai catturare: aveva bisogno di uno spazio grande, lascia la sua città e si mette a cercare, un uomo cresce così”. In un altro, un cuore al centro del foglio con un amo da pesca: “È perché Edward conquista sua moglie, e con l’anello nuziale prende il pesce che c’è nel racconto del giorno in cui è nato suo figlio”, “Ha passione in tutte le cose, e il suo amore lo ha sempre salvato: è per questo che in questo disegno tutto lo spazio è occupato dal cuore”.
Avete presente un iceberg? È ciò che Will chiede a suo padre quando, sul punto di morte, il figlio ha bisogno di riguadagnare il rapporto con lui. Se ne era infatti allontanato quando, ormai cresciuto, aveva smesso di credere ai racconti portentosi e straordinari che gli raccontava quando era bambino. Seduto accanto a lui nella stanza, gli chiede finalmente di essere se stesso, ed Edward ribatte che lo è sempre stato e che ha sempre raccontato il vero. Ribalta perciò la metafora utilizzata da William, che lo accusa di aver sempre mostrato di sé solo la superficie, e a modo suo continua ad educare lo sguardo del figlio ad addentrarsi nel significato di ciò ha davanti.
È questo che dovrebbe accadere a scuola ogni giorno, ed è questo ciò che è accaduto osservando i manifesti che avevo portato: pian piano i fatti e gli eventi del film, a prima vista esagerati e irreali, si sono svelati e lasciati comprendere. Ho chiesto ai ragazzi quale differenza ci fosse tra i cartelloni che trovano al cinema (con volti di attori e scene importanti) e quelli su cui avevamo lavorato, sintetici ed essenziali: questi ultimi ci hanno dato una chiave d’accesso alla storia ed è stato più necessario porci domande, mi hanno risposto.
Ho chiesto poi a ciascuno di produrre il proprio cartello: tutti, ma proprio tutti, con le capacità che hanno e in modo originale, hanno espresso ciò che avevano scoperto e trattenuto dal film.
Al centro di un foglio c’era una una semplice chiave, come quella che Edward riceve in dono quando si allontana con il gigante dalla città: “È il punto da cui tutto ha inizio, è la città da cui si allontana con Karl, il gigante, che come lui ha bisogno di cose grandi”; c’è poi chi ha rappresentato un giovane di spalle, con un libro su cui sono a sua volta rappresentate scarpe appese ai fili della luce: la vita di Edward è intrecciata alle storie e le sue storie sono favole che introducono al vero; c’è chi ha disegnato un uomo che pesca seduto su un iceberg vicino al quale c’è una barca con altri pescatori: le lenze scendono nell’acqua ma solo ad una abbocca un pesce: è a quella di Edward, che vi ha legato il suo anello nuziale e pesca col pesce anche un cuore dal fondo del mare. E mentre ritiro i disegni e mi faccio spiegare le scelte fatte, ce n’è uno che mi colpisce in particolare, soprattutto per la mano che me lo porge: c’è un fiume, in basso, e il cielo, con un sole al tramonto che scende sull’acqua; un uomo e un pesce sono ritratti in questo paesaggio: ma l’uomo è nel fiume, e il pesce è in alto nel cielo.
Chi mi sembra che in tanti contesti, sia italiano o un alunno straniero, fatichi a capire e ad esprimere quello che è, in questo lavoro ha potuto mostrare una parte di sé, dicendo anche lui — compiutamente — ciò che ha imparato e capito del film.
È fuor di dubbio che non possa sempre essere questo, la mia ora di italiano alle medie. Vero è, però, che l’esperimento che ho fatto ha mosso diverse dimensioni della persona, legate e connesse tra loro, e ha mostrato — prima di tutto a me — la potenza che ha l’incontro reale tra le discipline, l’abitudine a porsi domande, a scovare i legami e ad osservare.
Non so se questo o il lavoro di illustrazione (questa volta sì, nel suo senso grafico) del significato letterale delle metafore che ho proposto all’inizio dell’anno si possano definire didattica laboratoriale, compiti di realtà o che altro; non so nemmeno se nella valutazione si possa misurare con precisione ciò che i miei alunni hanno appreso, come invece si fa in altre occasioni. So soltanto che, qualche tempo dopo, con negli occhi il disegno di una bottiglia piena di macchine che si incastravano per uscire (erano in fondo “imbottigliate nel traffico”) o di un monte con un paio di Nike (“ai piedi del monte”) lo studente più scalcagnato, quello che non ha mai aperto il libro perché si stufa dopo cinque minuti, ha alzato la testa dal banco su cui la teneva appoggiata quando durante una lezione di storia mi ha sentito usar l’espressione “polveriera dei Balcani” e ha esclamato, contento e fiero di avere capito: “Prof, ma questa è una metafora!”.
Avete presente un iceberg? È bello veder affiorare l’io più nascosto dei nostri studenti, soprattutto se ciò che accade tra i banchi di scuola è a tutti gli effetti un evento conoscitivo anche per noi.