Caro direttore,
la crisi istituzionale in atto è il fenomeno più eclatante della frattura che si è ormai sedimentata nel paese dalla crisi del debito del novembre 2011 in poi.

La strategia della continua demonizzazione delle istanze definite “populistiche” da parte dei partiti che hanno segnato la storia della Seconda Repubblica ha ormai reso evidente tutta la sua miopia ed inefficacia: a dimostrazione dell’inadeguatezza di questa modalità di risposta ai sommovimenti socio-politici in atto nel paese, basti pensare all’ondata di sdegno social che hanno provocato le parole del commissario europeo al Bilancio Oettinger, benzina sul fuoco di un risentimento già esasperato per la crisi in corso.



L’origine del grossolano errore di reazione al fenomeno che ha finito ormai per occupare la maggior parte dei seggi parlamentari del Belpaese sta nella mancata comprensione della sua natura e quindi dell’origine profonda dello tsunami elettorale del 4 marzo. Il M5s e la Lega raccolgono consensi su pochi temi d’impatto, quali l’immigrazione e il welfare, senza porsi troppo il problema (soprattutto nel caso del Movimento 5 Stelle) di adottare una cultura politica di riferimento come strumento di lettura del momento storico e come ispirazione per le soluzioni da attuare. Il sovranismo che li accomuna perciò, non è altro che il risultato di questa semplificazione che deriva a sua volta dalla mancanza di storia e, conseguentemente, di chiavi di lettura delle situazioni storiche: i panni sembrano più facili da lavare in casa propria. Non è detto che lo siano.



Quello che invece dovrebbe essere in grado di fare un partito, o meglio, gli uomini di un partito, è mediare le istanze (che sono quanto di più concreto ci sia, l'”attuale” della politica) con una tradizione ideale e una storia fatta di uomini: solo questo può conferire trasversalità nei temi e profondità di visione all’azione politica, salvandola dalla tentazione della semplificazione e dell’inseguimento quotidiano del consenso (che sono forse le due costanti più macroscopiche della dialettica politica dall’inizio della campagna elettorale ad oggi).  

Quello che oggi si sta verificando nel dibattito pubblico è lo scollamento tra le istanze popolari e le tradizioni politico-partitiche. Le due narrazioni contrapposte a cui assistiamo, al di là delle collocazioni politiche nominali, sembrano contrapporre un universo politico che guarda alle istanze con la dichiarazione d’intenti di risolverle chirurgicamente con delle misure rapide, e un arco costituzionale ridotto all’osso che vive del passato e nel passato (assomigliando sempre più a strutture tradizionali piuttosto che a tradizioni strutturatesi), accusato di aver fatto politica per conservare il potere e che, incapace di difendersi, prova almeno a difendere l’assetto istituzionale per sacrosanta coerenza con la propria storia. I destinatari dei recenti appelli di Violante e Calenda ad un raggruppamento repubblicano in difesa delle istituzioni sono ovviamente da individuarsi all’interno di quest’arco.



Ma quanto ha davvero significato, quanto è in grado di generare benessere prima di tutto “istituzionale” questo portare fino in fondo quella “logica della contrapposizione” di cui in tempi apparentemente più tragici si preoccupava Aldo Moro? Si rischia con delle ottime intenzioni (difendere la salute istituzionale del paese) di allargare lo iato tra istanze e tradizioni politiche, tra popolo e istituzioni (che dei partiti dovrebbero essere la “casa comune”): è vero che la virulenza dell’espressione a volte può far inorridire, ma allontanarsi da chi chiede aiuto non genera altro se non disperazione. E questo allontanarsi può anche prendere, in buona fede, la forma del trinceramento in difesa della Costituzione repubblicana, oppure di un superficiale richiamo europeista. Se davvero crediamo che le istituzioni debbano essere difese bisogna essere schietti, sinceri, sottolineare ciò che va e ciò che non va nell’attuale sistema di potere, perché crediamo che il patto costituzionale sia ancora attuale: ma tutto questo in nesso profondo con i bisogni concreti del Paese, altrimenti ogni appello e richiamo sarà ultimamente conservatore, stantio e di conseguenza incomprensibile, visto che viviamo una fase di profondi cambiamenti.

Per prima cosa occorre quindi un processo di autocritica delle forze partitiche tradizionali, non nel senso di un’analisi delle scelte compiute negli ultimi anni (anche), ma prima di tutto nel senso di un accorgersi della propria impostazione di fondo, riflettere sul proprio compito nella società in questo fondamentale frangente storico e chiedersi quali sono le modalità più adeguate di perseguirlo. Riconoscere che oggi le persone guardano ad altre forze perché ci sono strutture di potere non convincono più nessuno (fa riflettere che esaminando il voto per categorie sociali, il Pd risulti prima lista solo tra i pensionati). 

Inoltre occorre raccogliere la provocazione che il M5s e la Lega hanno lanciato alla modalità dell’azione politica: perché sono stati in grado di ascoltare e di aver capito i temi urgenti nel paese più di noi? Come restituire in un linguaggio fruibile ai più la trama intricata delle situazioni che ci troviamo dinanzi? Come coinvolgere le persone nella discussione e nel processo decisionale senza venir meno alla nostra funzione di mediazione? 

Non c’è alternativa, per le forze tradizionali, al rispondere a queste domande. O forse un’alternativa c’è: la normalizzazione forzata dei populisti. Ma non sappiamo se avrà successo e quale sarà il suo costo, oltre ad essere un’occasione persa per le tante persone in cui la passione politica ancora non si è spenta e di conseguenza per tutta la politica italiana.