Un sondaggio di Skuola.net pubblicato qualche giorno fa riaccende il dibattito sugli argomenti e i testi della prova di italiano: il popolare sito ha coinvolto cinquemila maturandi per immaginare una rosa di autori viventi dalla cui produzione estrapolare il breve testo oggetto della prima tipologia della prova di italiano, l’analisi del testo.
Come prevedibile, oltre agli scrittori vengono presi in considerazione anche autori rap (e qui forse si può fare — ma tra parentesi perché mentre lo penso già diventa un luogo comune — la prima osservazione: la poesia “non la legge più nessuno” e ormai il suo posto l’ha preso il rap). Inutile dilungarsi sul canone proposto: ci sono i rapper Coez e Fedez insieme al vincitore di Sanremo Ermal Meta; Saviano, Volo, D’Avenia, Ferrante e altri per la narrativa. Tutti autori ascoltati e letti dai giovani d’oggi, ma soprattutto, bisogna dirlo, cliccati.
Non mi sembra il caso di discutere qui del valore artistico o letterario degli autori citati. Credo sia più interessante riflettere sull’idea di scuola e di maturità da cui prende le mosse una simile impostazione del problema: “e se il ministero dell’Istruzione decidesse di chiudere con il passato e concentrarsi solo sull’attualità? E se questa fosse non solo recente, ma anche ‘attuale’ per generi e fruizione?”. L’eterna querelle tra gli antichi e i moderni, o, se si vuole (ma non è proprio lo stesso) tra la tradizione e la storia, come direbbe Quadrelli, sembra in questo caso però posta con estrema ingenuità: non era un modernissimo il Caproni proposto l’anno scorso? E non era al contempo già un classico del Novecento? E allora perché quella scelta lasciò spiazzati tutti, i moderni quanto gli antichi, non dando quella soddisfazione che oggi si cerca nel rap o nel fantasy di Licia Troisi? Semplice: Perché in pochi sapevano chi fosse, e in meno ancora lo avevano letto — e non parlo solo degli studenti. Dobbiamo dunque arrenderci alla — pur non scontata — considerazione che la scuola dovrebbe occuparsi di ciò che affascina i gusti, gli interessi e (bisognerebbe sottolinearlo) le mode dell’oggi? Oppure difendere una idea di scuola come luogo privilegiato di una tradizione che, se assimilata, rende capaci di orientarsi anche nel contesto (spesso) magmatico dell’offerta culturale presente?
Non è facile prendere una posizione (o forse è facilissimo: come in molte cose la verità è nel mezzo. Io stesso, tra i testi che propongo ai miei alunni come classici, inizio ad inserire, accanto ai classici, alcuni poeti e scrittori della seconda metà del Novecento, che trattano di temi di attualità). Sicuramente la discussione ci porta nello specifico della prima prova, che non riguarda innanzitutto l’attualità dei testi proposti, ma la loro adeguatezza a verificare le competenze di comprensione, di analisi, e interpretazione di un testo letterario espresse attraverso il canale della scrittura, una competenza davvero questa ormai molto inattuale.
È da questa angolazione che andrebbero valutati non solo i testi scelti dalla commissione, ma anche la prova in sé. Come dice Serianni — in un libro in cui descrive e valuta tanto la produzione scritta di molti studenti quanto i diversi modi di correggerli da parte dei docenti (Luca Serianni, Giuseppe Benedetti, Scritti sui banchi. L’italiano a scuola fra alunni e insegnanti, Carocci 2015) — i criteri che dovrebbero guidare la scelta degli autori concernono la possibilità che gli studenti, davanti ai testi scelti e alle domande poste su di essi, siano davvero liberi, nel tempo a loro disposizione, di articolare un pensiero pertinente e originale. La prova di maturità deve verificare questa capacità di entrare criticamente nei testi letterari, non un epidermico interesse a certi fenomeni culturali. È nella capacità di confronto tra i fenomeni, di riconoscimento dei nessi tra gli elementi e il sistema in cui sono inseriti, nel riconoscimento del legame tra segni e significati che si vede la maturazione critica di uno studente: è qui che si valuta anche l’interesse.
Il rischio da evitare, tanto nella scelta degli autori (classici o modernissimi che siano) quanto e soprattutto nelle domande poste sui testi, è che gli studenti siano indotti a ripetere assertivamente quanto già presupposto nelle domande della traccia, o, peggio, a sciorinare luoghi comuni come fossero scoperte originali: ma nelle condizioni definite dalla prova in questione “diventa difficile provare a contraddire l’interpretazione critica ‘in nuce’ nella guida. Non c’è vera indagine, i percorsi di lettura sono suggeriti, indicati, sollecitati. Con queste premesse, come si può pensare ad una lettura autonoma o ad una sottile esplorazione del testo? Come si può pensare a un ‘approfondimento’? In realtà si chiama ‘approfondimento’ un discorso banalizzante, in quanto indotto, forzato” (Serianni).
In questo senso le proposte emerse nell’articolo citato sottintendono una giusta e condivisibile denuncia, che non è però, a mio modo di vedere, quella della presunta inattualità della nostra tradizione letteraria, ma un’altra: come posso scrivere con coscienza — argomentare, analizzare, interpretare — a proposito di un testo che mi viene proposto in un suo frammento e di cui, nella maggior parte dei casi, non conosco l’intero?
Pensateci, è come se vi chiedessero di commentare uno spezzone di un film che non avete visto: prima ancora di rispondere, non giudichereste paradossale la richiesta?