Un commento alla Coscienza di Zeno come traccia della maturità è molto poco probabile. Il titolo era uscito nel 2009 e pare fosse stato molto gradito agli studenti, perché qualche episodio del romanzo di Italo Svevo tutti lo conoscono, anche senza aver letto “l’unico libro” che l’autore afferma di aver scritto.
Quindi non uscirà. Ma se uscisse?! Ecco un dubbio alla Zeno Cosini — il nevrotico piccolo borghese protagonista della narrazione —, un dubbio pernicioso che come una botola si apre sotto ai piedi del mal capitato, precipitandolo nel mood del romanzo: il ronzio silenzioso di un tarlo della res cogitans, che la tormenta e la sbriciola di giorno in giorno, di situazione in situazione, fino alla messa fuori gioco, ovvero all’irrilevanza del pensiero individuale, la principale ricchezza di ciascuno.
La critica è concorde nel sottolineare lo scetticismo e la contraddittorietà di Svevo nei confronti della psicoanalisi. Svevo non crede possibile alcuna guarigione e irride, sotto questo aspetto, l’ottimismo della psicoanalisi degli albori, nel contempo ne teme il potere curativo che l’autore aborre quasi fosse il colpo di grazia inferto a quel che resta della creatività e della poesia umana.
Nel Soggiorno londinese, uno scritto del 1926, di tre anni posteriore alla Coscienza di Zeno, Svevo cerca di ricapitolare il suo complicato rapporto con la psicoanalisi: “Come cura a me non importava. Io ero sano o almeno amavo tanto la mia malattia (se c’è) da preservarmela con intero spirito di autodifesa. Anzi la mia antipatia per lo stile del Freud fu interpretata da un freudiano cui mi confidai come un colpo di denti dato dall’animale primitivo che c’è anche in me per proteggere la propria malattia. Ma la psicanalisi — Svevo lo confessa al lettore quasi con rammarico — non m’abbandonò più”.
Com’è facile notare l’andamento ondivago resta una costante del pensiero di Svevo. D’altronde pretendere univocità dallo scrittore che scelse per sé lo pseudonimo (emblematico) — oggi diremmo il nickname — di Italo Svevo: Italo sì! Ma anche Svevo! Svevo s!! Ma anche Italo! Non sarebbe soltanto paradossale, sarebbe come dichiarare apertamente la propria incapacità a intendere il messaggio dell’autore.
La cifra di Svevo come scrittore rimane l’ambivalenza, ovvero una delle principali scoperte freudiane. È l’ambivalenza (strettamente collegata alla rimozione) che frantuma la pretesa dell’uomo tutto d’un pezzo che l’Ottocento eredita dalla modernità dei secoli precedenti. Il motivo è semplice: solo con Freud la modernità trova il coraggio di fare i conti con l’oste, secondo l’efficace espressione che Giacomo Contri utilizza per indicare la scoperta dell’inconscio.
In altri termini, l’ambivalenza è la crepa che si apre in una concezione monolitica della razionalità che aveva escluso dalla sua considerazione alcuni aspetti cruciali dell’esperienza umana: il sogno, il corpo, il piacere, l’infanzia, i sessi, il lavoro e l’amore. Della nuova mappa dell’esperienza umana, un territorio che era a lungo rimasto incognito, Svevo — in questo indiscutibilmente freudiano — ha invece una percezione chiarissima, per quanto pessimista.
I temi affrontati nella Coscienza, compresi alcuni titoli dei capitoli, non sono che i nomi delle regioni dell’esperienza umana: l’infanzia e suoi ricordi cangianti: luminosi e dolorosi assieme, il rapporto con la madre (la bellissima donna elegantemente vestita che il piccolo Zeno vorrebbe gustare a piccoli morsi), il rapporto con il padre rimasto imbrigliato dal complesso edipico, l’uscita dalla famiglia, i rapporti amicali e affettivi. L’avventura del lavoro e dell’amore, con i distretti che per Zeno Cosini sono per così dire delle regioni autonome del denaro, dell’affetto e dell’eros. Se il personaggio di Svevo si muove in questi ambiti nel modo maldestro tipico della nevrosi, non di meno il suo autore dà mostra di essere un cartografo di primo livello.
Resta solo da vedere se queste regioni siano pensate da Svevo come “concetti geografici” o “come concetti giuridici”. È la differenza che passa tra una carta geografica e una carta politica dello stesso territorio. A fissarne la differenza è la governabilità, attraverso la creazione delle istituzioni: lo stato in primis, il suo governo e tutto l’insieme delle articolazioni amministrative.
Un’alternativa tutt’altro che irrilevante dal momento che tra i due poli passa il confine tra l’essere sotto lo schiaffo del determinismo naturale e socio-economico e la possibilità del loro governo. Non è inutile allora ricordare che la formazione di Zeno resta sospesa tra la chimica (l’elemento natural-geografico riconducibile alle Affinità Elettive dell’amato Goethe) e la giurisprudenza. Una scelta di campo che non sembrano saper fare né il personaggio Zeno Cosini né il suo autore, che chiude infatti un romanzo, per molti aspetti comico, in modo tragico: affidando l’unico rinnovamento possibile a una sorta di ekpyrosis, una conflagrazione universale — qualcuno ci ha visto la precognizione dell’atomica — che azzerando la civiltà del disagio, riporti il mondo allo stato originario senza più “parassiti e malattie”.
È noto invece come il “determinista e pessimista” Freud ritenesse che, almeno in certe condizioni favorevoli — quelle appunto indicate dalla parola guarigione — gli uomini potessero avere la legittima ambizione di tornare ad essere “padroni in casa propria”. Certo, non prima di aver fatto, in modo onesto, i conti con l’oste.