Condizione biasimata, eppure talora agognata, talvolta sconfinante nel patologico, o ancora gabbia invisibile: univoca insegna sotto cui porre la solitudine sembrerebbe non esistere, specie per l’uomo del post-moderno, sottoposto, sì, a stimoli di plurima origine, ma altrettanto tentato dalla caduta, o dal desiderio, di isolarsi per diverse finalità e motivazioni. Ma guardando ai secoli di produzione letteraria, di speculazione filosofica, di riflessione intorno alla psiche e di espressione artistica che precedono il terzo millennio non è possibile ignorare quanto un simile stato sia, mutatis mutandis, trasversalmente comune, quasi un connotato naturale, genetico dell’essere uomo.
Il termine latino solitudo, da cui il lemma italiano e, a propria volta, imparentato con solus, rimanderebbe all’osco sollus, traducibile con “intero”: la mentalità antica, dunque, pare volesse conferire al vocabolo una valenza positiva, come se la solitudine, coincidendo con l’interezza suggerita dal plausibile etimo, fosse una condizione sufficiente per l’esistenza, permettendo difatti all’uomo di sentirsi intero – ciò, tuttavia, non esclude il valore negativo di “isolamento” già nella lingua latina; pertanto, l’oscillazione semantica non può che riflettere quella stessa anfibologia di cui sopra, insolubile agli occhi dei nostri stessi antenati, come testimonia Seneca nelle Epistulae morales ad Lucilium, dove la solitudine viene, da una parte, lodata come felice terreno per la speculazione e il raggiungimento della vita beata, ma, dall’altra, è motivo di esortazione per lo stesso lettore, poiché il rischio di confondere la cura per se stessi (ed è noto il valore del tempo, un possesso tantum nostrum, per il precettore di Nerone) con un infruttuoso, ed anzi pericoloso, isolamento è tangibile.
A sostegno di una connotazione positiva concorre, in età bassomedievale, Francesco Petrarca, autore del De vita solitaria, ma anche di un sonetto dal celebre incipit, Solo et pensoso i più deserti campi (Rerum vulgarium fragmenta XXXV), risalenti entrambi pressoché agli anni Quaranta del Trecento; se, nel trattato, sotto l’egida della conciliazione tra religione cristiana e classicità, il poeta intende “dimostrar la felicità dell’esser solo” e “gl’inconvenienti del trovarsi in molti” (F. Petrarca, De vita solitaria, trad. di A. Bufano, Opere latine di Francesco Petrarca, Torino 1975) per esaltare i piaceri dell’otium letterario e la libertà di chi, per riprendere Seneca, non è tra gli occupati, ma vive in armonia con la natura e all’ombra degli insegnamenti degli antichi, e dunque denota uno stato invidiabile che “chi non l’ha gustato non l’intende” (F. Petrarca, op. cit.), nel sonetto, invece, la condizione torna ad essere bivalente, poiché egli si professa desideroso di evitare lo sguardo di quelle genti per le quali favola fui [ma qui: fu] gran tempo e la persecuzione di Amore, sua croce e delizia, pur fallendo. Oltretutto il millennio medievale manifestò spesse volte sete di ascetismo ed isolamento, ma non è quanto auspicato da Petrarca, che non accoglie il contemptus mundi propriamente religioso, giacché, di fatto, verrebbe meno quella libertà che lui considera componente intrinseca e conseguenza della solitudine.
L’incedere dei secoli, tuttavia, ha fatto sì che la solitudine intesa come otium e libertà, come tempo per se stessi, abbia lasciato il posto ad una condizione alienante, fortemente votata a bui sentimenti: tutto ciò è, in certo qual modo, frutto del progresso, ed in particolare delle Rivoluzioni Industriali, delle innovazioni tecniche e tecnologiche, dei conseguentemente mutati rapporti e ruoli sociali. Nell’olio su tela “Sera sul viale Karl Johan” di Munch (1892), infatti, il tema centrale riguarda l’alienazione: i borghesi che passeggiano per Oslo, peraltro all’ombra del Parlamento, deformati nell’espressione, rassomigliano particolarmente a zombie e non si curano di chi sta loro intorno; eppure una misteriosa figura si staglia sul fondo nero, poco dettagliata e pur tuttavia capace di richiamare lo sguardo dello spettatore in quanto emblema di chi è capace di andare controcorrente, del diverso. Quasi coesistono la solitudine di costui, che è anche fisicamente tangibile, e di tutti coloro che compongono il corteo; ben si accompagna a tale panorama l’enunciazione pirandelliana della conditio sine qua non proprio intorno alla solitudine: “La solitudine non è mai con voi; è sempre senza di voi, e soltanto possibile con un estraneo attorno: luogo o persona che sia, che del tutto vi ignorino, che del tutto voi ignoriate, così che la vostra volontà e il vostro sentimento restino sospesi e smarriti in un’incertezza angosciosa e, cessando ogni affermazione di voi, cessi l’intimità stessa della vostra coscienza”. (L. Pirandello, Uno, nessuno e centomila, Milano 1987 – ma I ed.: 1926).
In altri termini, l’uomo della società dei consumi si scopre irrimediabilmente da solo anche tra i suoi simili: non servono più l’isolamento fisico degli eremiti, la riflessione solitaria del saggio o la fuga petrarchesca dagli sguardi altrui, ci si annulla già nelle attività. Non più il tempo dell’introspezione, ma dello smarrimento, di quell’alienazione che deforma i volti giallastri come nei quadri del pittore norvegese. La solitudine, nel secolo breve, diventa malattia.
Sembrerebbe, così, non esserci più spazio per conferirle un significato positivo, ma fu propria una malata, una diversa a trasformarla in motore della propria esistenza. Con Alda Merini l’esclusione e l’isolamento sono frutto di una tormentata esperienza biografica, ma la poetessa, scomparsa nel 2009, riafferma con forza il valore individuale che Pirandello aveva negato; presumibilmente la Merini può farlo proprio dal suo particolare punto di vista, ma anche all’ombra di quelle reminiscenze classiche a lei tanto care. La solitudine è un possesso, quasi ritorna il tempus nostrum senecano: “S’anche ti lascerò per breve tempo, / solitudine mia, se mi trascina / l’amore, tornerò, stanne pur certa; / i sentimenti cedono, tu resti” (A. Merini, Piccoli canti, in La presenza di Orfeo, Milano 1953). Un trentennio, una guerra mondiale, un mondo nuovo separano il siciliano e la milanese, due volti di un Novecento caleidoscopico ed irriducibile: da una parte, infatti, l’annichilimento di sé, il naufragio nell’angoscia; dall’altra il potente ripristino del valore individuale, ma anche la presa di coscienza della vanità dei sentimenti, di fronte ai quali l’isolamento è un porto sicuro, non nave in gran tempesta. Come ridurre una tale contraddizione?
In medio stat virtus. Cronologicamente intermedio, ma di levatura esistenziale impareggiabile, Salvatore Quasimodo, Nobel per la letteratura nel 1959, porta la questione su un piano universale e praticamente inattaccabile con versi che sono un capolavoro dell’Ermetismo. Ognuno sta solo sul cuor della terra: non solo l’uomo, qui considerato nella sua più pura condizione emotiva, vive isolato, ma tale nasce; l’insolubile contraddizione è riportata alle origini. Trafitto da un raggio di sole: anche qui la vanità dei sentimenti, della felicità, un lampo momentaneo che nulla può di fronte alla nostra finitezza: ed è subito sera (S. Quasimodo, Ed è subito sera, in Acque e terre, Firenze 1930).
La parabola è completa: si vivono momenti di isolamento, alcuni si cercano, altri vengono imposti dalle circostanze. Con Quasimodo si è raggiunto assai probabilmente l’apice della questione, e a simili conclusioni si perviene con Emily Dickinson, che aveva elevato sopra ogni forma di solitudine del mondo quella dell’anima, “[…] quel punto più profondo, / segretezza polare / […] infinità finita” (E. Dickinson, 1695, in Tutte le poesie, a cura di M. Bulgheroni, Milano 1997 – ma I ed.: 1914). Resta fondamentale osservare, però, che tali forme, pur passibili di reductio ad unum, si sono declinate nel tempo e nello spazio in modo imprevedibile, acquisendo valenza positiva o negativa in misura variabile e in maniera dipendente dai contesti – non a caso oggi l’isolamento è giocoforza riconducibile ad una società ad alta tecnologia e capace di connessioni virtuali a lunga distanza pur nel chiuso di un immobile: l’uomo, aristotelicamente zoon politikon, non ha ancora dimostrato di aver superato questa propria contraddizione, e, probabilmente, mai ci riuscirà.
(Alessandro Privitera, studente in Filologia Moderna)