Il cammino delle bioscienze sembra inarrestabile. Periodicamente viene raggiunto un traguardo irraggiungibile, viene oltrepassato quello che sembrava un limite; interventi che sembravano impossibili diventano fattibili, risultati raccontati solo nei libri di fantascienza acquistano i caratteri della normalità. Anche se bisogna sempre fare molta attenzione ai dettagli e cercare di valutare quanto la novità è reale e quanto dipende dall’enfasi della comunicazione e dalla pressione mediatica che trasforma facilmente le pure ipotesi in teorie assodate.



Gli esempi non si contano. Dalle nuove tecniche di indagine neurologica, che si spingono a ridosso dei nostri processi mentali; all’editing del genoma, che promette la correzione puntuale dei difetti genetici; fino all’annuncio degli scienziati cinesi che nel gennaio scorso hanno rivelato l’avvenuta clonazione di scimmie tramite un esperimento di clonazione riproduttiva mediante tecnica Scnt (trasferimento di nucleo di cellula somatica in ovociti enucleati), analoga a quella applicata per la generazione della celebre pecora Dolly nel 1997. Il successo di questo esperimento sui macachi è stato confermato da una pubblicazione sulla autorevole rivista Cell ed ha superato i confini del puro scoop giornalistico; la notizia ha suscitato scalpore e preoccupazione soprattutto perché gli animali clonati appartengono all’ordine dei primati, filogeneticamente vicini alla specie umana.  



Una notizia del genere non può solo essere comunicata come normale avanzamento della ricerca scientifica; di fronte ad esse è inevitabile che vengano sollevati interrogativi come quelli avanzati dalla rivista Focus che nel sommario dell’articolo del 25 gennaio 2018 pone la domanda: “A che scopo?” E, con tono ancor più preoccupato: “Quanto è lontana la clonazione umana?”.

Sono interrogativi urgenti ma anche molto complessi che hanno iniziato a porsi con forza sul finire del secolo scorso tanto da originare una vera e propria area di ricerca: la bioetica. È un genere di studi che si occupa delle questioni legate alla vita: dai temi della nascita, con tutte le implicazioni delle nuove tecniche riproduttive oggi praticabili; ai problemi cruciali del fine vita ma anche alle possibilità di miglioramento delle condizioni di vita e di supporto alle diverse forme di disabilità.



Una ricerca che non può che essere interdisciplinare, come recita la definizione della Treccani, ma che nello stesso tempo sta diventando oltremodo specialistica e come tale rischia di allontanarsi dal vivo dei problemi reali per rifugiarsi nella elaborazione di articolati sistemi teorici. Il suo fine sembra essere più che altro quello di fornire criteri ai legislatori per alimentare l’intensa attività normativa sviluppata negli ultimi decenni. Come del resto è avvenuto in altri campi interessati fortemente dall’innovazione tecnologica – si pensi all’ambiente o al settore della sicurezza – c’è stato ed è tuttora in atto un fermento legislativo teso a produrre e a rendere vincolanti norme e direttive che dovrebbero regolamentare e disciplinare i rispettivi ambiti di competenza ma che spesso si infrange sugli scogli delle differenze culturali tra gli stati e degli interessi economici incrociati dei vari soggetti in campo.

Il tema della clonazione umana è particolarmente delicato e in esso si incrociano due aspetti entrambi acuti. La necessità di stabilire principi chiari e condivisi in questo caso si pone al massimo grado: è in questione, come recita la Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea, la dignità umana, il diritto inviolabile all’integrità fisica e psichica della persona.

D’altra parte, come evidenzia il testo di Demetrio Neri, c’è l’argomento della possibile utilità terapeutica delle ricerche in campo biomedico: è l’argomento forte di chi giustifica le sperimentazioni, anche le più estreme e spericolate. Neri osserva che la reazione a notizie come quella della clonazione dei macachi cinesi è dominata dall’emozione e quindi, nel lungo periodo, poco significativa ed efficace. Vorremmo però far notare che anche l’argomento dell’utilità terapeutica fa leva sulle componenti emotive e soggettive. Chi non vedrebbe favorevolmente la possibilità di utilizzare i “pezzi di ricambio” ottenuti dalla clonazione per soccorrere persone affette da difetti e malattie ritenute inguaribili e incurabili?

Il problema ci sembra di quelli che richiedono di andare più in profondità.

Normative come quelle indicate dall’Unione Europea sono sacrosante; sono principi sui quali è difficile trovare opposizione; e anche i divieti, posti in modo perentorio ma condivisibile, sembrerebbero non dare adito a scappatoie e al rifugio nei “casi particolari”. In realtà, quello che è successo negli ultimi 70 anni, da quando si sono svelati i primi segreti del codice genetico e si è aperta la possibilità di intervenire direttamente sulla vita a quel livello, dimostra che non bastano le normative e i regolamenti.

E non bastano neppure le schiere di specialisti in bioetica con il relativo contorno di pubblicazioni, convegni e corsi di aggiornamento. Si tratta di andare al cuore dell’esperienza dei singoli scienziati, alle loro motivazioni personali, alla loro formazione professionale e umana. Il dibattito bioetico sulla clonazione inizia prima di qualunque legislazione e di qualunque progetto di ricerca e prende l’avvio dalla domanda sul valore e sulla dignità della vita, di ciascuna vita; una domanda che non si accontenta di risposte accademiche e definitorie e chiede al singolo medico o ricercatore di essere riproposta ogni giorno entrando in laboratorio o in una corsia di ospedale.  

Mario Gargantini (Docente e giornalista scientifico)