Dalle macerie della guerra emerse un’Italia materialmente e psicologicamente distrutta: materialmente dall’occupazione tedesca, dalla fame, dai bombardamenti alleati; psicologicamente dallo scontro armato tra connazionali nei territori occupati dalla Wermacht oltre che da 20 anni di regime fascista. Il fascismo aveva assuefatto il popolo alla logica della prevaricazione: non c’era una cultura democratica, della convivenza tra idee differenti: la violenza fascista e le migliaia di vendette che ad essa seguirono sin dal settembre del ’43 (l’anarchia sembrava aver pervaso la mente degli italiani) sono forse la dimostrazione più palese che apparentemente non vi era alcuna solida premessa per l’avvio di una fase di piena democrazia e convivenza pacifica.



Tuttavia accanto ad un fattore di educazione-assuefazione politica, conviveva una grande voglia di rinnovamento che nasceva anche dall’esperienza traumatica della guerra: essa aveva generato una solidarietà umana (prepolitica) in quell’enorme massa di italiani che era stata semplicemente vittima passiva degli eventi bellici. Questa voglia di rinnovamento, di voltare pagina (nonostante tutto) spiega forse anche il voto, o meglio i voti del ’46: la vittoria con uno scarto di due milioni di voti della Repubblica fu chiaramente espressione del vissuto desiderio di discontinuità con l’esperienza monarco-fascista, mentre l’affermazione democristiana nel voto per l’Assemblea costituente dimostra che anche chi non aveva guardato con antipatia al fascismo era pronto a cambiare strada e incamminarsi sulla via della democrazia plurale: infatti i 10 milioni e 700mila voti per la monarchia confluiscono perlopiù nel voto alla Dc nell’Assemblea costituente.



Ai primi governi “politici” Bonomi e Parri, era succeduto nel dicembre del ’45 il democristiano Alcide De Gasperi, che a guerra finita, si trovò dinanzi al difficile compito di facilitare la ricostruzione materiale e psicologico-morale del paese. Il perseguimento di questo obiettivo avvenne inizialmente continuando l’esperienza dei governi di unità nazionale (partecipati da comunisti e socialisti): dalla metà del ’47 però De Gasperi decise di allontanare le sinistre dal governo dando il via al primo esecutivo centrista, che ovviamente gli permetteva di avere maggiore spazio di manovra sullo scenario internazionale, potendo dare seguito al viaggio di gennaio negli Stati Uniti prendendo parte all’European Recovery Program lanciato dal segretario di Stato americano Marshall. La partecipazione dell’Italia al programma (con la cooperazione tra Stati partecipanti che esso imponeva), ebbe all’inizio una buona dose di strumentalità, sia per quanto riguardava il bisogno di provvedere ad un immediato soddisfacimento delle esigenze alimentari di base, sia in relazione alla necessità italiana di riacquistare una posizione di forza per risollevare l’economia attraverso la partecipazione al massiccio trasferimento di capitali americani, intuizione che De Gasperi ebbe sin da subito. Solo ricavandosi un suo spazio all’interno della nascente economia mondiale l’Italia avrebbe potuto intraprendere la strada dello sviluppo. 



È importante osservare che la prima spinta al processo d’integrazione venne dagli americani, interessati a creare un secondo polo del blocco occidentale proprio in Europa, così da aprirsi un mercato enorme per l’immensa capacità produttiva americana e al tempo stesso limitare la politica di potenza sovietica. L’adesione al Patto Atlantico nel 1949 rappresentò, infine, il completamento militare della cooperazione iniziata con la partecipazione all’ERP: l’Italia era definitivamente collocata nel blocco americano.

Tuttavia la contemporanea presenza di tre figure provenienti dal cristianesimo sociale alla guida di Germania, Francia e Italia, poneva intanto le basi per un approfondimento, non mediato dagli USA, dell’esperienza dell’Organizzazione per la cooperazione economica europea (organizzazione che gestiva i fondi ERP). Nacque in questo spirito di cooperazione e di “terzietà relativa” rispetto alle due ascendenti superpotenze mondiali, il progetto di una gestione comune dell’economia europea: fu firmato già nel’48 il primo accordo europeo sui pagamenti, che facilitava gli acquisti intraeuropei attraverso il metodo della “stanza di compensazione”, che divenne stabile dal 1950 con l’istituzione  dell’Unione Europea dei Pagamenti: ciò provocò il forte disappunto degli USA, che vedevano ridurre le proprie esportazioni (soprattutto di macchinari industriali). Questo fatto dimostra come subito gli stati europei e De Gasperi stesso avessero chiaro che la strada per un autentico sviluppo passava per un progressivo affrancamento dalla dipendenza materiale dagli USA, e quindi per una gestione comune dell’economia europea. Questo programma vide un passo decisivo per la propria realizzazione nella nascita della CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’acciaio) nel ’51: carbone e acciaio rappresentavano allora il nucleo fondamentale dell’economia europea. 

Ma perché una così decisa propensione di De Gasperi al processo di integrazione europea, tanto da dare avvio ad una nuova fase di rapporti tra stati che pochi anni prima si erano combattuti ferocemente? 

De Gasperi fu uomo di frontiera, già suddito e parlamentare austriaco: visse da vicino tutto il cambiamento dei rapporti internazionali che seguì alla seconda guerra mondiale, il rapido naufragio dei quattordici punti di Wilson, ma soprattutto aveva visto i danni della crisi del 1929 sui rapporti internazionali degli stati europei: la Grande Depressione degli anni 30 era stata caratterizzata da feroci guerre commerciali tra gli stati europei che erano tornati a politiche protezionistiche. Aveva potuto osservare che senza una trama che legasse le economie europee, si era sempre in balia dei nazionalismi economici e politici.

Il progetto di un’integrazione europea rientrava perciò pienamente nel suo progetto di stabilizzazione economica e geopolitica (condivisa anche da Schuman e Adenauer) che si rendeva sempre più necessaria nella nascente logica di potenza della guerra fredda, anche per ricoprire un ruolo di primo piano all’interno della compagine occidentale, in cui era necessario schierarsi per fattori strutturali di dipendenza economica e politica. A questa visione non ancorata a miopi interessi nazionali ma connotata da un realismo politico di lungo periodo, sicuramente contribuì anche l’universalismo cristiano che si traduceva, nel contesto storico della guerra fredda, necessariamente in europeismo. 

L’azione politica dell’altro grande protagonista della Prima Repubblica, ovvero Aldo Moro, fu ispirata alla stessa logica di “terzietà relativa”, ma in un contesto molto diverso da quello in cui agì De Gasperi. I vincoli materiali di dipendenza dagli USA si erano notevolmente allentati. La rinascita industriale dei paesi europei aveva comportato un travolgente dinamismo delle economie europee (quella italiana in forte crescita dalla seconda metà degli anni 50) che aveva portato alla firma dei Trattati di Roma (1957). Il trattato istitutivo della Comunità Economica Europea, segnava un punto fondamentale nel processo di liberalizzazione degli scambi intraeuropei e l’inizio della convergenza delle politiche economiche, in particolare attraverso la leva agricola ed industriale. Moro, dominerà la scena politica dall’assunzione della Segreteria della DC nel ’59 fino alla sua tragica scomparsa nel ’78, attraversando da protagonista alcuni tra gli anni più tragici della Guerra Fredda (la guerra in Vietnam e la crisi dei missili cubani) ma anche la nuova stagione politica della distensione, inaugurata nel 1972 dai due leader delle superpotenze: Nixon e Breznev. 

Coerentemente alla sua azione politica interna, Moro approcciò la questione della cooperazione e della diplomazia con un approccio multilaterale: nella sua concezione di uomo e di politico, l’esclusione e l’esclusività nei rapporti politici furono sempre due categorie inaccettabili. In politica estera questo significava l’inclusione dei paesi socialisti nei circuiti del dialogo internazionale. 

Questo desiderio d’integrazione contribuì anche alla interpretazione personale del suo concetto di distensione. Mentre per le due superpotenze “distensione” stava a significare la sedimentazione dei blocchi e la fase di pacificazione tra di essi, Moro pensava ad una distensione “dinamica”, fitta di nuove possibilità di cooperazione anche con i paesi socialisti, che, non potendo essere economica a causa della contrapposizione COMECON/Patto di Varsavia-CEE/NATO, doveva dar vita ad una nuova configurazione dei rapporti che man mano portasse ad un progressivo superamento del sistema di Yalta, facendo leva sul tema del rispetto dei diritti umani, come via stretta per l’avvicinamento delle distanze tra i blocchi sfruttando la fase di pacificazione e sull’intensificazione delle relazioni, anche informali, con i paesi socialisti. Si pensi per esempio al fatto che l’Italia fu tra i primi stati a riconoscere la Cina di Mao (1970), ai viaggi diplomatici a Mosca e Bucarest e Budapest da ministro degli Esteri, al trattato di Osimo firmato nel 1975 con la Jugoslavia oppure agli stretti e costanti rapporti di interlocuzione con il mondo arabo e con i paesi della sponda africana del mediterraneo. La volontà e la capacità di Moro di andare oltre gli schemi ideologici segnò il suo culmine, in politica estera, nella Conferenza per la sicurezza e la cooperazione europea (il cui atto finale fu firmato nel 1975) voluta dai paesi dell’Europa occidentale e che vide la partecipazione anche dei paesi aderenti al Patto di Varsavia: in quell’occasione grazie anche al contributo di Moro (che era sia presidente del Consiglio Europeo sia presidente del Consiglio dei ministri italiano) si sancì il principio che l’appartenenza a blocchi di potere differenti non precludeva a forme di cooperazione (nel campo del disarmo, della diplomazia, del trasferimento tecnologico).

De Gasperi e Moro nei rispettivi contesti seppero interpretare la fase di rapporti internazionali che attraversavano, coglierne le opportunità con sano realismo politico, credendo fermamente nella centralità dell’integrazione europea: il primo vide nel progetto europeo, fortemente ancorato alla roccia statunitense, la possibilità della rinascita materiale e morale dei popoli europei; Moro vide invece nella cooperazione internazionale la strada per una politica estera non subalterna alla logica di potenza e di conflitto della guerra fredda, gettando, nel terreno fertile della distensione, il seme di un nuova centralità europea nello scenario globale, che sarebbe giunto a maturazione in seguito alla caduta del muro di Berlino.

(Edoardo Fabrizi, studente di Storia)