Istanbul, la capitale di tre imperi che sono crollati come le grandi ambizioni degli uomini di potere. Ovunque campeggia la figura di Mustafa Kemal Atatürk, il fondatore della Repubblica turca.

Si è ormai conclusa la mia esperienza di un anno di insegnamento nell’antica Costantinopoli, “poscia che Costantin l’aquila volse contr’al corso del ciel…”, come scriveva Dante. Ho insegnato italiano e latino in un liceo scientifico privato che ha il curricolo italo-turco, abilitato dallo Stato italiano a rilasciare diplomi equipollenti ai nostri. Mentre scrivo questo contributo, mi trovo in un “bar” con vista mozzafiato sul Bosforo solcato da indolenti traghetti e da navi mercantili; mancano, invece, le navi da crociera, che qui latitano, come i turisti, dopo gli attacchi terroristici e il tentativo di colpo di stato di due anni fa. Sembra lontano: Istanbul è ritornata a una sua normalità nella vita quotidiana, sebbene si appresti a un giro di boa della sua storia contemporanea: l’esito delle elezioni presidenziali di oggi, 24 giugno darà un nuovo corso. Quale? Si vedrà.



Tanti sono i pensieri e i ricordi in questo momento: le partenze sono sempre ricche di malinconia e ora capisco meglio certe tonalità melodrammatiche dei film di Ferzan Ozpetek, nato a Istanbul. Qui le canzoni italiane delle colonne sonore dei suoi film sono un po’ ovunque perché fa radical-chic; se si va sul nazional-popolare, si ascolta Celentano.



Durante il mio anno a Istanbul, mantengo i contatti con il Belpaese; mi colpiscono le parole del professor Ivano Dionigi, ex rettore dell’Università di Bologna, in occasione dell’ultimo rapporto Almalaurea sui laureati: “Continua la storia: esportiamo laureati, il 6 per cento vanno all’estero perché non trovano lavoro e perché vengono pagati meglio. Esportiamo cervelli, laureati, capitale umano ed importiamo badanti”. La mia esperienza va in controtendenza: molte famiglie di Istanbul scelgono di iscrivere i propri figli in una scuola italiana, che per legge deve avere anche il curricolo turco, perché credono nel sistema-Italia; infatti gran parte degli alunni si iscriverà nei nostri atenei, in particolare nelle facoltà scientifiche.



Io ho avuto le classi 12, cioè quelle dell’ultimo anno: gran parte degli alunni si è impegnata nello studio scolastico nelle discipline fino al primo quadrimestre, poi ha quasi mollato il colpo per concentrarsi sulla preparazione per gli esami di ammissione all’università, in quanto ci sono quote riservate agli stranieri.

Ho imparato ad amare i loro “sogni” verso il nostro Paese, fatto di conoscenze dirette e di stereotipi costruiti, un po’ come in tutto il globo, a partire dagli anni  ruggenti, quando eravamo la quinta potenza industriale del mondo e non un paese in crisi e un approdo di disperati venuti col barcone.

Ho soprannominato i miei studenti delle classi 12 i “giovani turchi”, in allusione alla rivoluzione politico-militare attuata da Mustafa (Kemal fu aggiunto dal suo professore di matematica del liceo militare in quanto era un eccellente studente in questa materia). Ma nella mia ludica allusione, si tratta di una “rivoluzione” in chiave personale e interiore, in quanto i ragazzi, finito il liceo, saranno catapultati in una realtà alquanto diversa da quella nella quale sono cresciuti.

Scrive Egar Morin: “La comprensione è nel contempo il mezzo e il fine della comunicazione umana. Ora l’educazione alla comprensione è assente dai nostri insegnamenti. Il pianeta ha bisogno in tutti i sensi di reciproche comprensioni. La reciproca comprensione fra umani, sia prossimi che lontani, è ormai vitale affinché le relazioni umane escano dal loro stato barbaro di incomprensione”.

Che senso profondo ha dunque il fatto che gran parte degli studenti delle classi 12 vadano a studiare in Italia?

Ho provato ad assegnare come ultimo compito in classe un “tema”, che qui viene chiamato “composizione”, invitando gli studenti a fare un bilancio di questi cinque anni al liceo e ad esporre la loro idea sul nostro Paese.

Ho imparato ad accettare il livello di italiano accettabile di gran parte degli studenti, che non sono bilingui, sebbene vi siano eccellenze; mi sono perlopiù imbattuto in idee stereotipate e omologate, come sarebbero uscite dalla penne (anche se qui usano sempre la matita!) dei diciottenni nei licei italiani. Qualcuno però si distingue per originalità. Quello che colpisce invece è la voglia di sognare un futuro migliore, personale, e l’Italia costituisce ai loro occhi il trampolino di lancio del futuro: la Turchia è un paese di giovani, l’Italia è un paese di vecchi. Questa è la fotografia dei dati della popolazione. La Turchia è protesa verso un futuro che si sta costruendo: incerto, multiforme, poliedrico, a tratti inquietante. Istanbul pare la quintessenza di questa metafora, “tirata” tra Europa e Asia, come un trampoliere su una corda.

Una scuola italiana all’estero ha anche la missione di creare concretamente i presupposti della “comprensione” di cui parlava Morin, per costruire ponti di amicizia tra i popoli a partire dai giovani. Qui, nel liceo in cui ho fatto questa esperienza di docente, c’è l’idea che la “comprensione” sia una valore aggiunto e necessario da insegnare insieme alle discipline.

Sono convinto che i “miei” studenti delle 12 apriranno un nuovo capitolo della loro vita, incominciando a scrivere le prime pagine con l’inchiostro delle grandi sfide. Proprio quando saranno in Italia, dove è facile trovare lavoro come badante e scappare da laureato perché si è sottopagati.

Si metteranno alla prova: forse qualcuno ritornerà a casa. Ma in ogni caso avrà avviato la propria “rivoluzione” interiore come fecero i Giovani Turchi sperando e sognando una patria migliore  rispetto alla decadenza di quel che rimaneva dell’Impero Ottomano agonizzante. In questo modo i miei studenti mia hanno dato una grande lezione di vita: mai smettere di sognare.