Un nuovo ministero dell’Istruzione è iniziato, con una caratteristica affatto nuova sui precedenti: a guidare il timone, delle tre figure due provengono dal mondo della scuola. Uno dall’apparato amministrativo e l’altro direttamente dalla dirigenza scolastica. Come ha giustamente osservato Orazio Niceforo, si tratta di un fatto mai accaduto a quel ministero. Per trovare poi tra i ministri una provenienza diretta dal mondo della scuola occorre risalire al 1983 con Franca Falcucci. Altri tempi.
Le buone premesse si accompagnano però a brutte avvisaglie, una su tutte. Eliminare la chiamata diretta — ieri la firma dell’accordo, tra Miur e sindacati (Flc Cgil, Cisl scuola, Uil scuola e Gilda) — è una brutta marcia indietro verso la linea dei ministri che non hanno innovato nulla. Ma purtroppo i sindacati avevano quell’obiettivo, lo hanno preteso e lo hanno ottenuto. E’ proprio questa la brutta avvisaglia!
E’ vero, la chiamata diretta dei docenti di ruolo da parte dei presidi ha avuto problemi, ma si è trattato della prima timida ripresa della stra-dimenticata autonomia delle scuola, rimasta congelata, col 1993, al coraggioso tentativo del ministro Berlinguer, al quale si debbono le ultime grandi novità del sistema: l’autonomia appunto e la parità scolastica. Un dispositivo, la chiamata diretta, che ha permesso in molti casi di reperire docenti con competenze adeguate all’offerta formativa delle scuole, invece che con la casualità delle graduatorie.
Eppure le prime dichiarazioni parevano di altro tenore, sensate e realistiche: nessuna nuova riforma ma la soluzione di alcuni problemi; nessun ribaltamento dell’importante avvio dell’alternanza scuola lavoro ma solo una sistemazione organizzativa; la revisione dell’eccesso di responsabilità scaricate sui presidi ed una riflessione sul loro ruolo deformato negli anni.
C’era pure la saggia decisione di non eliminare la novità del bonus merito per gli insegnanti, una pur iniziale scelta renziana di riconoscimento per chi nella scuola si dedica a qualcosa di più che il solo lavoro di cattedra.
Ma la capacità di resistere — e il cedimento di ieri non è confortante — alla pesante pressione del sindacalismo scolastico è il vero banco di prova. Quel mondo porta con sé una visione conservativa, corporativa, finalizzata all’uso della scuola per i posti di lavoro.
Proprio in questa direzione si è pure creato un nuovo caso con le pressioni per l’immissione in ruolo delle 40mila maestre non laureate: la scuola non ha bisogno di altre sanatorie, anche se spinte da errori del passato, ma di una nuova valorizzazione e verifica delle competenze che faccia dell’insegnamento una professione capace di recuperare dignità, merito e rispetto.
Ma il concorso a dirigenti scolastici resta la prima sfida dove verificare l’attenzione reale ai drammi della scuola. I chiari segnali dovranno essere il suo regolare svolgimento, la prova preselettiva il 27 luglio e la resistenza alla sirene che (sostenute da alcuni sindacati) ne vogliono un ulteriore rinvio.
La situazione è grave. L’inerzia politico-sindacal-amministrativa ha creato un vuoto impressionante: su 8.520 scuole operano 6.400 dirigenti scolastici. Quindi fra due mesi più di metà delle scuole statali italiane saranno dirette da presidi a mezzo servizio, per coprire con l’assurdo istituto delle reggenza il buco delle scuole senza dirigente scolastico titolare. Se un quarto delle aziende italiane non avesse chi le dirige che succederebbe?
Per sette anni amministrazione, sindacato e politica hanno, in fondo, disprezzato il compito decisivo della direzione educativa ed organizzativa delle scuole statali. Come si possono affrontare a scuola i gravi problemi della qualità didattica, della formazione al lavoro dei giovani, del clima educativo, della difesa e dignità dell’insegnamento, della ripresa di una alleanza con le famiglie, se non c’è una presenza stabile e competente a dirigere una comunità scolastica?
Serve con urgenza un decreto che dia un incarico direttivo (chiaramente provvisorio per un anno e senza riflessi sulla carriera dirigenziale) a tutte le scuole che ne sono prive, anche valorizzando tutti quei vice-presidi che per anni le hanno fatte funzionare. La soluzione tecnico-giuridica è possibile. Contestualmente occorre accelerare al massimo (e non rinviare) lo svolgimento del concorso, così da coprire tutti i posti vacanti con dirigenti che restino, per i prossimi anni, stabili in tutte le scuole dal settembre 2019. Il minimo che una burocrazia efficiente possa fare.
Certo, il nuovo ministro non può certamente limitarsi a sistemazioni amministrative. Ma realismo vuole che non si inseguano nuove fantomatiche riforme globali, sulle quale di nuovo rinnovare lo scontro di questi anni. Occorre prendere atto che la politica è debole, che l’istruzione e la cultura non sono (ahimè!) tra i beni primari degli italiani, se fa fede sia quello che (non) si trova nel cosiddetto “contratto” del nuovo governo M5s-Lega, sia l’assenza totale del tema in tutta la campagna elettorale.
In questo contesto sarebbe saggio limitarsi, almeno in due anni, ad aggiustare le maggiori difficoltà esistenti. Poi, chissà, potrebbe riaprirsi una nuova stagione di rinnovamento, di modernizzazione. Ma questo per ora è solo un auspicio.