Sfogliando le pagine di cultura di un quotidiano mi cade l’occhio su una citazione tratta dal Faust di Goethe. Mefistofele dice al giovane studente: “Grigia è, mio caro amico, ogni teoria, verde è l’albero d’oro della vita”.
Ne ho avuto conferma quando sono stato invitato a un dibattito su corsi universitari, specializzazioni e futuro, organizzato da un’università milanese.
Gli studenti che ho di fronte nell’aula magna mi guardano apatici: sono prossimi alla laurea, parte in psicologia e parte in scienze dell’educazione, e sono lì per assistere a una tavola rotonda sui rispettivi studi e sulle loro prospettive di lavoro.
Io sono stato invitato quale coordinatore di cooperative sociali operanti con giovani e adulti in difficoltà: un mondo che un giorno potrebbe aver bisogno delle loro competenze; per lo stesso motivo, è presente il responsabile di un affermato studio di psicoterapia.
Mi sento a disagio, per la confusione culturale che attraversa anche il mondo della carità, dove c’è raramente sintesi fra ideali e professionalità e si arriva a chiedere competenze e regole nuove di fronte ad ogni problema: dilaga la teoria astratta, avulsa dalla vita, che riempie la bocca di “esperti” che sostengono tutto e l’esatto opposto. Il relativismo favorisce risposte facili, senza riscontri nella realtà e nell’esperienza.
Una matura docente di scienze dell’educazione, quale moderatrice, mi invita al microfono e mi assegna un quarto d’ora per un primo intervento: attività in corso, difficoltà, finanziamenti.
Mi presento, spiegando che parlo da cattolico impegnato in opere di carità che hanno assunto rilevanza sociale. Poi spiazzo tutti con una domanda: “Che differenza c’è tra psicologia e scienza dell’educazione?”
Silenzio.
Continuo: “Quando interviene un laureato in psicologia e quando uno in scienze dell’educazione? C’è qualcuno che vuole rispondere?”.
Silenzio imbarazzato degli studenti.
L’insegnante si sente in obbligo di intervenire. Illustra i due corsi di laurea specificando esami, materie in comune e materie differenti. Poi tocca a me. “Va bene — dico —, i piani di studi sono diversi, ma io vorrei sapere che compiti avranno questi ragazzi nella vita, con quale consapevolezza e umanità accompagneranno le persone”.
“La prego! — fa l’insegnante —. Ci ha già parlato delle sue convinzioni religiose: non le condivido ma le rispetto, ora, però, torni al tema e non ci faccia la predica. Sono vent’anni che insegno scienze dell’educazione e guido io il dibattito”.
La docente è spazientita, per la piega del mio intervento e forse perché non capisce dove voglio arrivare. “Stia tranquilla — ribatto con lo stesso tono — ho solo parlato di consapevolezza. Vediamo quanta ne esiste. Partiamo dai termini ‘scienze’ ed ‘educazione’. Io ho lavorato anche in un centro di ricerche, e posso dire che la scienza studia le leggi che regolano il ripetersi dei fenomeni: fino a prova contraria, lo stesso procedimento dà lo stesso risultato. Da questo punto di vista, cosa ci sia di scientifico nell’educazione mi risulta un mistero, tanto è vero che più figli degli stessi genitori crescono diversi tra loro”.
La docente è sulle spine, ma proseguo. “Anche il termine educazione mi sembra inappropriato, perché l’educazione interpella la libertà dell’essere umano che hai di fronte, l’impostazione della vita che gli proponi, ciò che è bene o male secondo la tua esperienza, e non mi risultano corsi in cui si parla di questi valori”.
La docente ora è sconcertata. Vado avanti: “Conclusione: non vedo né scienza, né educazione. Non faccio prediche a nessuno: sono pronto a discutere su tutto, ma dico che — di scienze dell’educazione — accetto solo ‘della’, la preposizione articolata contenuta nel nome della facoltà”.
Si sente qualcuno ridere. Forse è uno studente appena bocciato ad un esame, che vede la docente in difficoltà. Ma io non voglio mettere alla berlina nessuno: spiego che voglio un’altra impostazione, voglio che si confronti la teoria con la vita, lo studio con la verifica dei risultati. E mi offende chi riduce a “predica” l’esposizione dei miei valori e della mia fede.
La docente si riprende e, questa volta, misura le parole: “Scienze dell’educazione è il complesso delle discipline che trattano le condizioni in grado di favorire o di ostacolare i processi educativi o formativi dell’individuo: psicologia, pedagogia, sociologia… Sono stata più chiara?”
“Chiarissima! — ribatto —. Con la sua definizione mi conferma che qui non parlate di contenuti dell’educazione — trasmessi dalla famiglia, dagli incontri, dalla società —… Voi vi limitate a trattare le condizioni in grado di favorirla o ostacolarla, servendovi di varie discipline tra cui la psicologia: insomma, date agli studenti tutti gli strumenti per educare e nessun contenuto, nessuna educazione da trasmettere”.
Guardo la platea: è attenta. Finalmente non avverto l’apatia che attanaglia i giovani quando non credono possibile una novità.
I valori non sono all’ordine del giorno, ma non rinuncio a sollevare il tema: “L’educazione è il processo attraverso cui viene proposta a piccoli e grandi un’ipotesi di senso, di scopo della vita, da cui derivano scelte e comportamenti. L’educazione — ripeto — interpella la libertà: un ragazzo può aderire o meno a tale proposta, al modello di vita che gli viene indicato. Se lo accetta, è perché l’educatore trasmette una certezza, un’energia per andare avanti, che poi continuerà a nutrirsi di incontri con persone e situazioni successive: educare è illuminare la ricerca di un motivo per vivere che c’è in ciascuno di noi”.
Una ragazza si alza, sale sul palco e va al microfono predisposto per le domande. Le trema un po’ la voce per l’emozione ma è subito chiaro che è decisa a capirne di più. “Lei — chiede la giovane — ha parlato di educazione e ha definito la psicologia uno ‘strumento’. Sto per laurearmi e vorrei diventare psicoterapeuta”.
Mi sento in dovere di cedere la parola al responsabile dello studio di psicoterapia, che interviene senza sbavature. “La psicologia studia il comportamento umano e la mente, i rapporti tra il soggetto e l’ambiente: se da queste analisi emergono disturbi nel rapportarsi con sé e con gli altri, una difficoltà ad agire… ecco, in questo caso, interviene lo psicoterapeuta che aiuta il soggetto a liberarsi da ansie, paure e freni. Una volta che l’individuo è guarito, lo psicoterapeuta esce di scena e lui è finalmente libero di agire consapevolmente…”.
“E in base a quale criterio agirà?” — lo interrompe la ragazza.
“Beh, signorina — continua l’esperto — io ho descritto cosa dovrebbe succedere in teoria… In pratica, tutto è un po’ diverso: la famiglia, la scuola, il concetto di autorità… tutto è in crisi, mancano punti di riferimento e spesso è il paziente che, oltre la cura, chiede allo psicoterapeuta anche qualche linea di indirizzo: un criterio di comportamento, per usare le sue parole”.
“Ma così lo psicologo — ribatte quella — fa da anche da padre, maestro, guida… È scorretto!”
Lo psicoterapeuta si stringe nelle spalle: “Lei ha ragione. Si può essere d’accordo o meno con l’amico delle cooperative sociali, ma bisogna riconoscere il vuoto di valori e di personalità solide — di ‘educatori’ — che denuncia. Lo psicologo fa di tutto: è chiamato per un ragazzo difficile, per un matrimonio in crisi, per un figlio taciturno che magari ha solo bisogno di affetto. E spesso, messo in un ruolo non suo, lo psicologo fa solo danni. Anche gravi”.
“Mia sorella si è suicidata” — intervengo. Mi trema la voce ma proseguo, nel silenzio generale, di fronte allo sguardo attonito della docente e del responsabile dello studio. Nelle mie parole non c’è rancore, ma il ritorno di un dolore sofferto di recente. Racconto di un matrimonio lungo e riuscito, due figlie adolescenti, un marito stimato fino ad un anno prima. Poi tutto crolla. Perché? cosa è successo? Questa volta, la fede non è bastata a sostenere mia sorella. Lo psicoterapeuta l’ha aiutata come sapaeva, in un doloroso percorso d’analisi, lontano dai valori morali e dalla sua crescente sofferenza, ma mia sorella si sentiva lacerata e me lo diceva: divisa fra il bisogno di Dio, dello psicoterapeuta e di farmaci che lo psicoterapeuta non poteva prescriverle. Ho cercato uno psichiatra, che non è arrivato in tempo.
Era una domenica mattina: mia sorella si era gettata dalla finestra e ora giaceva sull’asfalto. “I giorni di festa sono i più duri per chi si sente spaventosamente solo — mi disse lo psicoterapeuta subito accorso — non so come dirle il mio dispiacere… anche per me la situazione era diventata insostenibile: avrei dovuto rendermi conto della situazione e chiamare io lo psichiatra, già qualche tempo fa”.
La mia testimonianza ha riappacificato il clima e, salutando, invito tutti a riflettere e cercare i nessi fra la tragica morte che ho raccontato e gli interventi precedenti. Insisto che occorre domandarsi le ragioni di tutto, e giudicare ciò che accade: solo così la grigia teoria diventa cultura e, quindi, “verde albero della vita”.