La “maturità” è una scadenza temuta o agognata, è un rito laico che, da un anno all’altro, si perpetua o, meglio, si trascina sempre più fiacco. Diciamoci francamente: temuta mica tanto, viste le percentuali di licenziati prossime al 100 per cento degli ammessi. Per fallire occorre mettersi d’impegno: devi proprio fare il muto in scena (davanti alla commissione) o, peggio, maneggiare lo smartphone per copiature generose, che del resto si potrebbero tentare, sempre a rischio e pericolo, con il buon vecchio mezzo cartaceo.



La maturità si avvia verso il centenario: fu istituita dal ministro filosofo Giovanni Gentile nel 1923, nell’anno I dell’era fascista. Si ha un’idea di come funzionava? In commissione, in sedi esterne agli istituti, sedevano spesso docenti dell’università senza membri interni alla classe; le prove scritte erano 4 e l’orale, distribuito in due giornate almeno, verteva su tutte le materie dell’intero corso (degli ultimi tre anni!); con tanto di esami di riparazione a settembre. I promossi? Nel 1925, di oltre 20mila candidati — su una popolazione di 40 milioni — furono il 59,5 per cento alla maturità classica e il 54,9 per cento alla maturità scientifica. L’anno prima, quello dell’esordio, ancora più bassa era stata la percentuale, tanto che anni dopo gerarchi e opinione pubblica ottennero che la macchina venisse ammorbidita.



Come ben sapete voi maturandi e tutti gli italiani che seguono la vita della scuola, da vent’anni ha preso il nome più freddo e burocratico di “Esame di Stato”: glielo diede nel 1997 il ministro Luigi Berlinguer (lo stesso che poco dopo licenziò un’importante e discussa riforma dei cicli scolastici, troppo frettolosamente abrogata dal successivo governo Berlusconi): tre le prove scritte più il colloquio e il punteggio in centesimi. Una riforma, quella berlingueriana vigente, che ebbe il merito di metter fine a una formula molto ridotta di esame (1969, ministro Fiorentino Sullo) che avrebbe dovuto fungere da “esperimento” biennale, e che invece si applicò ininterrottamente per tre decenni. Ormai, con la scolarità di massa, i maturandi sono circa mezzo milione su una popolazione di 60 milioni.



Perché questi noiosi cenni storici? Primo: è utile, e quasi mai praticato in classe, il riferimento alla storia delle istituzioni della scuola italiana e anche dei Paesi europei, conoscere le quali aiuta non poco a rendersi conto delle direttive politiche ed economiche dei governi (e magari fa fare bella figura all’esame…). Secondo: un po’ di più si comprende perché i governi, gli Stati, non levano la presa dall’educazione nazionale o pubblica istruzione che la si voglia chiamare. Cambiano i regimi e i colori — neri, rossi, bianchi, rosa, giallo-verde… — ma la pretesa di dirigere, gestire e orientare l’educazione dei minori e dei giovani, in Italia specialmente, resta. Alla faccia della libertà d’iniziativa, della parità scolastica, del primato dei genitori sancito dalla Costituzione (articolo 30: “È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio”).

Un tempo, non ancora trascorso, si narrava dell’esame come di un “rito di passaggio simbolico all’interno della società italiana, dall’adolescenza all’età adulta”. A parte il fatto che esso era uno dei “riti” — un altro era, per esempio, il servizio militare o civile obbligatorio —, ma mi dite dove sta oggi il valore rituale simbolico, quando sempre più atenei predispongono test d’ammissione alle facoltà destinati a studenti del 4° anno di liceo, prima e indipendentemente dall’esito dell’esame di Stato?

Un dato, questo, che fra l’altro rivela in quale considerazione effettiva è tenuto il famoso rito della maturità. E dimostra l’insostenibilità e l’irrealtà del “valore legale del titolo di studio”, istituto legale allo stremo, che illude diplomati e laureati (e anche più professori, presidi e rettori) che non sussistano differenze qualitative sostanziali tra una scuola e un’altra, a Torino o a Lamezia o a Siena. In Puglia (dati Miur del 2016) i diplomati con 100 e lode furono 934 contro i 300 della Lombardia. Anche per tali squilibri le aziende che assumono neppure guardano il voto di maturità.

Perciò, voglio dire pubblicamente agli studenti: prendete coscienza dell’esperienza fatta durante il quinquennio tecnico o liceale che avete appena terminato, considerate il meglio e il molto (spero) che avete appreso e che (spero) vi ha cambiato la vita, vi ha resi “esseri ragionevoli” (Aristotele) consapevoli di esserlo, così come delle scoperte fatte, di chi vi è stato maestro, delle amicizie strette e della decisione (spero) maturata d’indirizzare gli anni futuri con un’ipotesi professionale da spendere, da rischiare con coraggio.

E nello sforzo finale di studio al quale vi accingete, non dico di tenere un profilo spensierato, no, ma un atteggiamento ironico sì. Voglio dire, tenere una sana e saggia distanza dall’esito, dal voto, dalla “prestazione”, preoccupandovi piuttosto, una volta di più, di capire meglio e di fare sintesi delle lezioni annotate e delle centinaia di pagine di manuale lette e rilette e schematizzate, o di affinare le prassi esecutive tecniche. Essendo pienamente voi stessi, senza rinunciare alla vostra intelligenza né venendo meno al libero esercizio critico, esercizio del discernimento e del giudizio. La vita apprezzerà, e vi darà ragione.