Al discorso del presidente Conte davanti al Senato, in vista della richiesta di fiducia, è seguito un gran numero di reazioni critiche, spesso prevenute. Una di queste è: ha taciuto sulla cultura e sulla scuola. Forse gli osservatori non hanno visto bene, ma il professor Conte sta già facendo cultura, almeno con il suo understatement e con l’attenzione a vestire bene: se va ai G8, la sua mise potrà essere trendy e sarà una manna per i fatturati delle imprese nel settore della moda: le pochettes andranno a ruba. Verrebbe in tal modo confermata un’ipotesi, che sempre più si conferma, alla prova dei fatti: con la cultura (vissuta, non “parlata”) si mangia, eccome. Purché le brame regolatrici si assopiscano, le burocrazie estenuatrici distolgano il guardo e gli “esperti” siano lasciati a secco, senza consulenze e relativi compensi pagati dai contribuenti.
Peraltro, cultura è parola vaga: a seconda di come è intesa, prende sensi diversi. Può essere riferita a un modo di vedere la realtà che è condiviso all’interno di una comunità. Inoltre, cultura è usata anche per indicare i costumi tipici di un aggregato sociale oppure il complesso dei contributi letterari, artistici, scientifici con i quali una tradizione si manifesta e si attesta nel mondo. Tutti questi aspetti ben documentano come, attraverso le opere culturali, una comunità di popolo contribuisca alla storia dell’umanità. Anche per ragioni di politica estera un governo ha dunque il compito di intervenire per promuovere e diffondere la cultura del proprio Paese.
Ad alcuni sembra tuttavia che ai governi piaccia soprattutto intervenire direttamente nella cultura, per cambiare il punto di vista del popolo sulla realtà. Dicono inoltre che certe organizzazioni internazionali si diano da fare per diffondere una cultura ispirata variamente a prospettive eugenetiche e gran parte dei mass media profondano energie nel brain washing di massa. Può dunque essere accolta con favore la discrezione del presidente del Consiglio in questo ambito.
D’altronde, se cultura è un tentativo di rispondere a domande fondamentali che sorgono negli individui (non in tutti e non ovunque), occorre chiedersi: che resta (que reste-t-il) della cultura? Forse un ricordo che ci corre dietro senza tregua? (un souvenir qui me poursuit sans cesse). Alla cultura, come ipotesi sulla realtà, si affianca o si sostituisce l’intrattenimento, che di-verte, allontana dalla realtà. La prima esige costante allenamento, la seconda è narcotica e rende pigri mentalmente. Al cuore della cultura occidentale vi è l’uso della ragione per “fare i conti” con quel che avviene (la radice del lat. ratio vale, in origine, per “calcolo”: la stessa radice si trova nella forma –red del numerale inglese hundred). Spesso la ragione va in riposo sabbatico e al suo posto dominano le opinioni infondate e ripetute; ma se si rinuncia a un criterio per trovare nella realtà i riscontri alle affermazioni che si fanno, è arduo avviare un cammino culturale.
A dare qualche aiuto a chi è in balia delle “bufale” mediatiche dovrebbe forse essere la scuola, come comunità di persone chiamate a “far crescere”, a e-ducare, cioè a costruire sviluppando le personalità individuali in formazione. Può essere molto positiva la scelta, come ministro, di una persona con solida esperienza della realtà scolastica e cresciuto in un contesto orientato a rispettare la libertà d’educazione che spetta alle famiglie. Una tale personalità può affrontare una grande impresa, che — anche soltanto accennata — può giovare molto al governo dell’istruzione pubblica (statale e privata paritaria): tener fuori dalla scuola chi non ne conosce la realtà. In Italia, è noto che ci sono milioni di commissari tecnici della Nazionale; ci sono milioni di costituzionalisti; ci sono anche milioni di esperti insegnanti che non hanno titoli per mettere piede nelle aule.
Bisognerebbe anche tutelare gli insegnanti da chi ne sfrutta, a fini politici, le frequenti difficoltà professionali e il trattamento economico poco decoroso. Occorrerebbe pure difendere le scuole dalle varie “agenzie” educative, che premono per fare propaganda e manipolare gli studenti o per vendere prodotti vari. Sarebbe poi delizioso liberare studenti e insegnanti dalle mille attività banali (“educazione a…”) che non educano, ma servono soprattutto a chi ne trae qualche guadagno.
Si scoprirebbe che la scuola funziona benissimo se insegnanti e studenti si concentrano sui “fondamentali”: assimilare e riconoscere le strutture della convivenza civile (l’antica “educazione civica”), imparare un metodo per fare esperienza della realtà e saper esercitare il pensiero critico, che tutela dalle manipolazioni. Vaste programme?