Caro direttore,
si sono appena conclusi gli orali degli esami di maturità a cui ho preso parte come membro interno del liceo scientifico in cui insegno storia e filosofia. In questi giorni si svolgeranno gli scrutini e verranno resi pubblici gli esiti. Faccio il professore da più di trent’anni anni e ho visto ormai molte generazioni di studenti passare attraverso questa prova che, come una lente di ingrandimento, ha reso evidenti, anno dopo anno, le differenze dei ragazzi rispetto ai loro compagni delle classi precedenti. Gli studenti che ho accompagnato nell’ultimo triennio e che ora si stanno confrontando con l’esame di maturità fanno parte della cosiddetta generazione Y, più conosciuta come “millennials”. Dopo l’esperienza di questi giorni di esame, posso dire che, pur condividendo la preoccupazione per le sorti di giovani resi fragili dall’isolamento tecnologico, da situazione familiari sempre più problematiche, dall’incertezza diffusa che si riversa soprattutto su di loro, alla fine, guardandoli in azione durante questi esami devo considerarmi ottimista. Proprio il momento della prova infatti mi ha permesso meglio di vedere chi sono e la mia fiducia nel loro avvenire nasce da qui. 



Quest’anno, in particolare, mi ha colpito quanto i ragazzi fossero emozionati. Per me è anche il segno di quanto abbiano preso sul serio quella che è, per la maggior parte di loro, la prima grande prova con cui si mettono in gioco nella vita. Persino un ragazzo, capo di istituto, abituato quindi a parlare in pubblico dovendo tenere assemblee studentesche, al momento dell’interrogazione sembrava aver perso tutta quella sicurezza con cui l’avevo visto muoversi nei momenti comuni a scuola. In qualche modo era consapevole, non solo di giocarsi un voto, una “faccia” presso amici e parenti, ma anche di vivere la prima possibilità per interloquire a livello adulto col mondo. Posso dire che tutti i miei studenti hanno vissuto l’esame di maturità come la prima grande prova “pubblica” della loro vita. 



La dimostrazione per me più importante di questa loro responsabilità è data dal fatto che nessuno è arrivato impreparato. Persino uno studente per il quale c’era stata una lunga discussione in consiglio di classe, con il dubbio se ammetterlo o meno all’esame, ha lasciato me e i miei colleghi a bocca aperta non solo per il recupero che era riuscito a fare nella preparazione, ma anche per l’abilità di passare da una materia all’altra nell’interrogazione. Non ho visto nessuno rimanere bloccato nelle sue difficoltà. Tutti hanno mostrato una certa grinta. 

Coinvolgerli, entrare nel loro mondo e capirlo è la sfida che ha di fronte a sé ogni insegnante, se vuole davvero far passare i concetti chiave della sua disciplina e far fare ai ragazzi l’esperienza di quanto questi concetti possano essere d’interesse per la loro crescita. Da questo punto di vista, è un peccato che dall’anno prossimo verrà eliminata la tesina, cioè la trattazione di un tema a piacere del candidato. E’ vero che vengono proposti lavori al limite dell’accettazione. Un mio alunno quest’anno ha portato una tesina sul rock facendo collegamenti con la letteratura italiana e inglese un po’ improbabili. Però la tesina rimane uno strumento con cui i ragazzi per primi devono prendere sul serio i loro interessi, rischiare le loro intuizioni, facendo nessi, indagando anche su campi inesplorati. Li abbiamo già conosciuti e messi alla prova per cinque anni, se l’interrogazione diventa un dialogo (e sappiamo bene quanto è importante in questa epoca imparare a dialogare realmente), anche l’esame può essere ricordato come un’espressione autentica di ciò che sanno e di ciò che sono.



Un’altro particolare da cui sono rimasto colpito quest’anno è la solidarietà tra i ragazzi, che non hanno lesinato aiuti e sostegno gli uni con gli altri. Un mio alunno che è arrivato sistematicamente in ritardo durante l’anno, raramente prima delle 8,30, il penultimo giorno degli orali si è presentato puntualissimo alle 8 per assistere un suo compagno. Più di uno ha rinunciato a momenti di ripasso per stare vicino agli amici. Anche questo mi ha fatto rendere conto di quanto la scuola sia stata un percorso di crescita per tutti, un cammino condiviso che ha cambiato tutti.

E’ tutto rose e fiori quindi? Non proprio. Posso dire che, per me che insegno filosofia, ad esempio, la sfida con il loro modo di usare la ragione, anche quest’anno, è stata quotidiana. Ad esempio, quando si parla di “mondo sovrasensibile”, immediatamente i ragazzi lo traducono con “mondo che non esiste”. Uno mio alunno, pochi mesi fa, mi ha detto che Platone, con il suo riferimento al mondo delle idee e alla sua applicazione alla politica, gli sembrava “un po’ psicopatico”. Hanno repulsione per tutto ciò che è astratto e una esigenza estrema di concretezza e autenticità. Da questo punto di vista sono figli di Nietzsche, della sua “fedeltà alla terra”. Non per niente il filosofo prussiano è quello che più amano. Naturalmente non mi arrendo alla loro repulsione per ogni sovrastruttura e astrazione: voglio che imparino a capirle e a usarle. Ma sono viscerali, hanno bisogno di non perdere il contatto con le loro parti più autentiche e di questo devo tenere conto, re-imparando la mia materia e re-imparando a trasmetterla in modo che possa diventare anche loro patrimonio. 

Sono sollecitato ogni giorno dal modo di ragionare dei miei studenti, ma anche dal loro modo di sentire. Una volta ho invitato in un’assemblea d’istituto Ahmad Farhad, un ex mujaheddin afgano, che ha vissuto il terrorismo islamico e che grazie all’incontro con la mamma di un suo amico ha operato una conversione verso quello che lui ora considera il vero islam. Questa mamma gli disse: guarda che in ognuno di noi c’è un puntino bianco che gli permette di riconoscere quando c’è qualcosa che gli corrisponde. Mi sono poi reso conto, durante l’anno, che tutti, in un modo o in un altro, avevano fatto tesoro di questa testimonianza, che avevano fatto un passo in avanti nella consapevolezza della bellezza della loro natura di esseri umani. E per questo avevano guadagnato più fiducia in sé, negli altri, nella vita.

Non a caso, quindi, durante la maturità molti hanno parlato della psicologia delle masse, legate ai totalitarismi, di come l’individuo possa essere dominato dal contesto. Il grande senso della libertà dei miei studenti si è naturalmente palesato insieme alla paura di non poterla realizzare, al dubbio che si possa essere veramente liberi. Ma sono convinto che fino a che i nostri ragazzi mostreranno di voler essere autenticamente se stessi, liberi, disponibili ad aiutarsi, ad affrontare con responsabilità e apertura le sfide della vita, tutti possiamo essere fiduciosi per il loro futuro.