Sul pasticcio delle maestre diplomate, cioè non laureate, che rischiano il licenziamento, il ministro ha preso tempo, cioè ha deciso di non decidere. Forse in attesa di una sanatoria con un concorso riservato.
Penso stia colpendo un po’ tutti questa vicenda che da alcuni mesi è agli onori della cronaca. E che dice molto su certi comportamenti e costumi sociali.
Proviamo ad offrire un’analisi in controluce.
La parola decisiva, ad oggi, è del Consiglio di Stato, il quale ha stabilito che quello di queste maestre, cioè mantenere il posto di lavoro, non è un diritto. Un pasticcio che non dipende, però, da questo organo dello Stato. Perché non si doveva arrivare a questo punto.
Dispiace, dunque, vedere tanti docenti, che insegnano da anni, in questa situazione. Perché è in gioco anzitutto la dignità della loro professionalità. Ma va detto che questi docenti sono stati usati da chi li ha illusi che la certezza del diritto si poteva aggirare, invece di essere accompagnati al titolo di studio richiesto. Qual è dunque la causa di tutto?
Nella pratica italiana questi ricorsi sono patrocinati da qualche sigla sindacale. Nell’illusione, prima o poi, di qualche sanatoria. Che anche oggi in molti invocano. Tante volte in passato è successo proprio così. Mentre dovrebbe essere la certezza del diritto a segnare le scelte individuali e collettive.
E’ su questa logica dei continui ricorsi (oramai si ricorre su tutto) che viene costruita, purtroppo, la nostra prassi amministrativa, nella speranza di sanare il tutto con qualche emendamento nascosto da qualche parte o di qualche decreto-legge ad hoc.
La conseguenza è quella di innescare conflitti su conflitti. Da una parte dunque i diplomati, dall’altra i laureati. Se è vero, come è vero, che la laurea, per questi insegnanti, è prevista da quasi un ventennio, non è possibile continuare ad alimentare situazioni ibride: la laurea è obbligatoria dal 2003.
E’ un po’ la storia italiana. La vera causa, ce lo dobbiamo confessare, dell’odierna crisi del mondo sindacale. Vivere ed alimentare la logica degli infiniti ricorsi, mentre dovevano essere gli stessi sindacati a spingere per creare per tempo percorsi di adeguamento, nei diplomati, ai nuovi titoli di studio giustamente richiesti. Senza più sanatorie.
Perché tutto questo? Perché in Italia sono i Tar che hanno il compito di filtrare il cosiddetto diritto amministrativo. Creando non pochi problemi. Passando poi la palla, dopo le sospensive, al Consiglio di Stato.
In tempi di lotta alla burocrazia, non credo sia fuori luogo ritornare a questo problema aperto, cioè la riforma, se non l’abolizione, di questo filtro amministrativo. Ben oltre la recente abolizione di alcune sedi distaccate e le polemiche sui privilegi e conflitti di interesse dei consiglieri di Stato.
Mentre negli altri Paesi queste istituzioni hanno limiti precisi, da noi hanno uno spazio di potere smisurato. Ricorrere al Tar è diventato da noi quasi un fatto normale: per una bocciatura, ma anche per un concorso pubblico, per un appalto, eccetera. Senza limiti, tranne che per i meno abbienti.
E le conseguenze? Poco importano: ricorsi usati, come ha avuto modo di ripetere Romano Prodi, “per scopi che il buon senso ritiene del tutto estranei a un’efficace difesa dei diritti”.
Ricorrere al Tar oggi è diventato lo strumento più efficace per mantenere il dominante immobilismo del nostro sistema Paese. Tar che accolgono “con riserva”, da un lato, per poi essere smentiti dal Consiglio di Stato. Un gioco delle parti che fa la fortuna di avvocati e sindacati, ma che fa male al nostro sistema Paese.
La contromisura? Non occorre essere dei giuristi: abolire la giustizia amministrativa ed accorparla alla giustizia ordinaria. Ovviamente riformata e semplificata, per garantire l’effettiva certezza del diritto.