Albert Camus, ricordando il suo maestro così scrive ne Il primo uomo: “certo, anche nelle altre classi si insegnavano molte cose, ma un po’ come si ingozzavano le oche. Si presentava un cibo preconfezionato e si invitavano i ragazzi a inghiottirlo. Nella classe del Signor Germain, per la prima volta in vita loro, sentivano invece di esistere e di essere oggetto della più alta considerazione: li si giudicava degni di scoprire il mondo”.
Me la ripeto spesso questa frase quando vado a scuola la mattina, perché la dignità del mio lavoro e della presenza dei miei studenti non consiste nello stipendio, scarso, o nel ruolo, depotenziato e misconosciuto, o nella non discriminazione o nell’educazione alla legalità — tutte queste sono conseguenze —, ma nella scoperta del mondo, nel compiere l’atto primordiale di Adamo nel paradiso terrestre, che vedeva e scopriva tutto quello che Dio aveva creato; l’atto di ogni rivoluzione scientifica, la scoperta che c’è qualcosa d’altro oltre il conosciuto; l’atto creatore della poesia e dell’arte, che aiutano l’uomo a scoprire chi è.
Il paradiso, però, non era fatto per il possesso di Adamo, e non scopre nulla chi si limita a custodire, magari in buona fede, quello che ha senza gettare il cuore avanti e rischiare. La scuola italiana combatte da decenni contro il nozionismo, simbolo di tutti i mali dell’istruzione che fu, ma rischia di fornire poche nozioni e soprattutto di chiedere agli studenti di ripetere sempre quelle. Nelle interrogazioni, ma anche nelle prove d’esame, si incontrano ragazzi che si sono imparati a memoria pagine di letteratura, discorsi in inglese, definizioni di matematica o, come mi è capitato poco tempo fa, l’intera tesina, spesso spronati dai loro professori perché “almeno così dici qualcosa visto che da solo non sai fare un discorso”.
Ovviamente tutto questo non serve a nulla perché la vita non accetta replicanti ma persone vive che si facciano domande, che dicano come la pensano, che discutano un’opinione. Chi è abituato a ripetere solo opinioni altrui può credere tutto, può essere, a seconda della convenienze, imbonito o dominato. Da quanto tempo non facciamo ai nostri ragazzi la domanda “ma tu che ne pensi?”, “tu che faresti in questa situazione?”. Confesso che è una tentazione ricorrente soprattutto per chi insegna negli istituti tecnici e professionali, dove la pochezza dell’espressione spesso si accompagna a buone capacità tecniche e alla prospettiva, immediata, di un lavoro in cui saranno richieste tanta manualità e poche parole. “Ma non sanno parlare, usano un vocabolario ristretto e una sintassi approssimativa”, si dirà. Invece non parlano perché non hanno nulla di proprio da dire: il lessico si potenzia e la sintassi si corregge, ma i contenuti e le esperienze non possono essere mutuate dal professore o dal libro.
Lo studio diventa scoperta quando è mosso da qualcosa a cui si tiene: non ho mai sentito i miei alunni parlare tanto e con proprietà come quando sono andata in laboratorio e stavano litigando su un progetto: era una cosa loro, una scoperta personale, e la difendevano. Gli errori di personaggi pubblici che indignano alcuni e fanno ridere altri, l’elogio dell’ignoranza, che sembra prendere campo, hanno origine qui: chi sbaglia i congiuntivi o la rivoluzione francese è uno a cui a scuola e poi nel resto della vita è stato chiesto solo di ripetere.