Fuori da scuola rimangono bottiglie vuote. Un cimitero di plastica accartocciata, dopo che il sole rapido dell’estate ha asciugato gli schizzi dei gavettoni. Dentro, nel silenzio irreale dei corridoi improvvisamente larghi, il breve frastuono dei banchi spostati. Dalle lavagne è ormai cancellato quanto speravamo non si cancellasse mai: parole che erano segni già inadeguati, di gesso o di inchiostro, di tanta promessa di vita. Che avrebbe dovuto incidere i cuori: pagine e frasi che parevano atomiche scagliate nei mari in burrasca, la cui deflagrazione avrebbe svegliato il mondo intero, e scatenato una tempesta impazzita di onde. Invece fu poco più di un sassolino nello stagno: Leopardi, Omero, Dante, con tutta la potenza che turbinava in fondo, hanno appena increspato la superficie. Qualche cerchio concentrico, di diametro non maggiore di altre canzoni, altre parole, altri richiami, pronti a prendersi la scena. In classe si sarà anche parlato della vita; ma la vita poi, zittite le chiacchiere dei saggi brevi, la si vive con altri.



Le onde di giugno non hanno bisogno di schiumare più di tanto per inghiottire un anno scolastico. Placide, come un’ovvietà, azzerano le scritte sul bagnasciuga. Credevamo di aver scritto sulla roccia, e che gli scogli, accarezzati dall’acqua, non si spostassero. Ma è così: settimane di dialoghi sull’amore di Enea e Didone assiderate dal primo ragazzo alla prima festa, e slanci verso ideali infiniti risucchiati dalle convenienze, dalle usanze, dagli ormoni. Dovremmo imparare a scrivere sulla sabbia: su questi cuori come sabbia, come pile che si scaricano in fretta, latte fresco senza lunga conservazione. C’è chi ha imparato a modellarla, e a farci anche apprezzabili castelli.



Sono i castelli della finzione, per fortuna, che crollano d’estate. Quel che si affermava nei compiti o nelle aule poteva non costare quasi niente. Ora, invece, emergerà il vero: in ciò che si dirà in spiaggia, la sera, agli amici; o che non si dirà, se la distrazione coinciderà con se stessi. Sotto la pancia non senti più la mano che ti ha sorretto per insegnarti a nuotare: solo in questo mare, cosa fai adesso? per cosa spendi il tempo che è tutto tuo? a quale capo, a quale compito (a quale ora?) rispondi alzandoti al mattino? Rischiamo pure che si anneghi nell’ignoranza anziché galleggiare nell’istruzione obbligatoria: ma tu vuoi davvero nuotare? leggeresti un libro che non ti ordina nessuno (o che non ordini a nessuno)? Possiamo smettere, finalmente, di recitare la parte degli intellettuali che non siamo: oltre Netflix c’è qualche poeta che ti attira? 



Ci hanno messo il filo spinato fra dovere e piacere, inverno ed estate, scuola e mare. Ma ogni pagina letta a scuola non era roba di scuola: Dante è stato davvero cacciato dalla sua città, Ungaretti ha davvero rischiato la pelle in trincea. C’entrano poco i banchi, le verifiche, i registri elettronici. Perciò, se un’intuizione fu vera in classe ad aprile, non c’è altro modo che luglio per verificarla: mi suggeriscono qualcosa, le parole di quello scrittore e di quell’insegnante, su come passare il tempo? su cosa significa essere amici, su cosa fare stasera? c’entrano qualcosa con i mondiali, i villaggi turistici, gli amorazzi? aiutano a guardare il mare, il cielo, il mal di pancia? “Le ore del mattino sono occupate dalla scuola: nelle altre cosa facciamo?” si chiedeva Agostino nelle Confessioni: “perché non impiegarle in quest’opera”, di cercare l’ideale per cui dare la vita, anziché buttarle via riempiendo il vuoto con l’inutile?

Si pensa, da troppe parti, che la scuola serva a inserirsi nel mondo. Serve, invece, a giudicare il mondo: a stanare, forte dell’incontro con la genialità umana, il proprio cuore, quell’arma che vale più delle stelle, dei soldi e del sesso, e sa rialzarsi dal divano, dalle serate tutte uguali, dallo stordimento collettivo, dal tempo che si sbrodola, dal borghesismo molliccio, dall’usa e getta dei rapporti e dei lavori, e comincia a dire — a costo di sentirsi fuori posto — “bello”, “brutto”, “vero”, “falso”, “umano”, “disumano”. 

Per tutto maggio a scuola non si parlava quasi d’altro: “dai, che sta per finire!”, “lo so, siamo tutti stanchi”. Discorsi inconcepibili, fuori da quelle mura. Chiedete a un pizzaiolo o a un muratore o un poliziotto. L’arco dell’anno lungo 9 mesi anziché 12 esiste solo nella testa di insegnanti e studenti. O delle puerpere: nove mesi a portare il peso, ma poi comincia l’avventura; sboccia il perché della fatica. È questa la percezione di chi si libera della scuola? o è stato un travaglio senza parto, un’attesa senza bambino? un peso inutile, un pancione che riprende fiato prima di barcollare ancora, una gravidanza in cui abbiamo già dato, e ora non vogliamo più rogne? 

Altro che finita: è ora che si comincia. Come non possiamo nascondere i chili che le troppe mangiate ci lasciano addosso, o come è filiforme chi divora tutto e brucia subito: così c’è chi legge, ascolta, parla e brucia subito. Ma chi non spurga parole e intuizioni se le porta negli occhi grondanti di domande: si vede che ha letto Omero, si vede che cerca la sua Itaca, non lo fermano il canto delle sirene né le Calipso di turno, non gozzoviglia con i proci, non va dove lo portano i venti di Eolo. 

Se adesso ci accorgeremo che la vita è una, senza salti fra banchi e ombrelloni, alla ripresa non avremo bisogno di ricarburare togliendo il costume e indossando una maschera, perché al posto di nostalgie da relax avremo da regalare una più ardente fame di cominciare. Chi ci risparmierà, dopo i luoghi comuni di maggio, i luoghi comuni di settembre? chi potrà raccontare la scoperta estiva di luoghi non comuni?