I risultati delle prove Invalsi 2018 hanno confermato quanto già si sa dal 2003 grazie all’indagine Pisa: esistono e persistono differenze molto notevoli fra le regioni italiane, quali in nessun altro paese che partecipa alle valutazioni internazionali. Le differenze si sono accentuate dopo che la somministrazione per via informatica ha di fatto azzerato il cheating per l’impossibilità di copiare.
Reazioni? L’impressione è che, dopo un primo periodo di contrasto ed anche in alcuni anni di sabotaggio con il pretesto della lotta alla Buona Scuola, l’atteggiamento più diffuso oggi fra gli interessati stia diventando quello della rassegnazione e dell’indifferenza, soprattutto nella misura in cui sembra sventato il rischio che le prove Invalsi inserite nell’esame di maturità potessero calmierare i voti (sempre in testa la Calabria!) e visto che la blanda valutazione del Servizio Nazionale di Valutazione in corso nelle scuole non attribuisce un valore molto pesante a cattivi risultati nelle prove Invalsi né tampoco prevede misure “punitive”.
Autorevoli opinionisti hanno dato sul Corriere le loro ricette: più tempo a scuola per i ragazzi, miglioramenti alle strutture ed educazione civica. Soluzioni peraltro già sentite ed in parte tentate senza grandi risultati.
Prima di pensare ai rimedi forse però vale la pena soffermarsi sulle cause. La spiegazione sottintesa e tacitamente diffusa di questa situazione è che l’arretratezza scolastica sarebbe un indicatore dello stato complessivo di arretratezza culturale ed economica di quella società. Ma alcuni elementi dovrebbero farci riflettere: il Sud ha una lunga storia culturale, ha avuto nelle sue ristrette élites intellettuali e politici di vaglia ed è diffusa l’idea che le famiglie del Sud nutrirebbero un’alta valutazione della cultura e della scuola, superiore a quella delle famiglie della parte Nord del paese. Inoltre, le città del Nord ed ora anche quelle europee e statunitensi non mancano di giovani intraprendenti provenienti dal Sud che ricoprono ruoli e svolgono compiti impegnativi.
Un’altra spiegazione potrebbe portarci a riflettere sul taglio didattico della scuola “normale” del Sud. E’ importante la parola normale perché anche i dati relativi alla misurazione del valore aggiunto dimostrano che al Sud non mancano buone scuole, ma che il problema sta nel numero alto di scuole con valore aggiunto negativo e nella carenza conseguente di un’accettabile medietas. Un problema peraltro che nel Sud è comune anche ad altri settori. Se tutta la scuola italiana, nonostante corsi e ricorsi, è tuttora di impianto tradizionale, quella del Sud lo è in misura molto più alta e ne è prova la sua scarsa presenza in attività innovative, soprattutto se non patrocinate da Miur o Europa. Ora, ha ragione Chiosso ad affermare che un taglio didattico pesantemente e monopolisticamente costruttivista, quale quello che sembrerebbe affermarsi nelle ultime tendenze della formazione docenti, è da evitarsi. Perché anche le impostazioni che egli definisce della “narrazione culturale” e della” imitazione” hanno le loro funzioni ed i loro meriti e che perciò la migliore soluzione è quella di un sincretismo intelligente, in relazione ai diversi contesti e finalità. Ma certamente la didattica della “imitazione” non consente buoni risultati nelle prove Invalsi né in quelle Pisa, che richiedono autonomia cognitiva e ragionamento. E forse neanche nella formazione di cittadini evoluti.
Infine un’osservazione di carattere più sociologico potrebbe risultare anche più stimolante. I dati relativi alle differenze nelle classi, nelle scuole e fra le scuole conducono ad una diagnosi concorde. Nel Sud la polarizzazione cognitiva e sociale è molto alta sia fra i licei e gli altri tipi di scuola (pochi) a finalità di formazione professionale, sia fra le classi di una stesso istituto. Si tratta di una situazione molto diffusa fra i paesi di minore sviluppo sociale e culturale, in particolare nel Sudamerica. L’esistenza di una classe privilegiata che cerca ed incrementa le occasioni di sviluppo scolastico in chiave di segregazione si accompagna alla rinuncia a un’effettiva scolarizzazione delle fasce meno privilegiate culturalmente e socialmente, spesso per un atteggiamento paternalistico e lassista (misurare il percorso e non gli esiti…). Non a caso la parte d’Italia dove c’è maggiore equità è il Nord-Est, dove si registrano anche i migliori risultati. Forse è qui che bisogna scavare: nella differenza fra una cultura alta, tradizionalmente umanistica, poco attiva, riservata alle élite e la cultura o meglio la subcultura della “plebe”.
Per “migliorare” però è necessario avere la consapevolezza di essere in una situazione negativa e la convenienza a migliorarla. L’impressione invece è che — a parte ristrette élite di insegnanti volonterosi — in quelle società ambedue gli elementi scarseggino: le alte votazioni dei titoli di studio continuano nel loro trend ottimistico e continuano ed essere moneta sonante da spendere nel mercato del lavoro pubblico; ed è sempre più diffusa l’idea che la propria cultura antropologica sia diversa da quella delle altre parti d’Italia e d’Europa, ma non certamente inferiore.