Nel dibattito sulla dirigenza della scuola statale e della scuola paritaria porrei come emblematica la radicale affermazione di Rousseau: “delle due l’una: non si può contemporaneamente educare l’uomo e il cittadino”. Solo il “cittadino”, accantonando la sua particolarità di “uomo”, con tradizioni, inclinazioni, storia e cultura, considerate divisive, può costruire la “volontà generale”.



E così, lo Stato ha bisogno di “cittadini” e la sua scuola è questi che dovrà formare. Qui sta l’origine del neutralismo valoriale della scuola di Stato. Certo, il dirigente statale è un uomo, in quanto tale portatore di valori, di visione della vita, di personalità con la quale cercherà di dare forma alla propria scuola. Ma che deve arrestare subito, perché questo è il suo privato, non la sua mission istituzionale che risponde al mandato di istruire cittadini supposti tutti uguali.



Invece, “per chi” e “per che cosa”, per quale comunità e per quale scopo è la domanda alla radice della questione della leadership. Osservava ancora negli anni 80 l’economista Marco Martini: “nelle scuole di Stato un preside si vede assegnati casualmente i propri collaboratori, non può essere considerato responsabile del servizio: così i professori, che sempre casualmente si trovano ad operare insieme, non possono essere corresponsabili di un progetto che non esiste. D’altro canto, gli utenti, anche loro casualmente assegnati a questa o quella scuola, sanno già dì imbattersi nel solito: non dipende da noi”. 



Pensiamo a tutta l’analisi del contesto che dovrebbe permettere di situare il proprio intervento: emergenza educativa, rottura della tradizione valoriale condivisa, e perciò soggettivismo esasperato e relativismo scettico. Si pensi al “deserto di insensatezza”, all’omologazione relativistica che maschera la mancanza di senso… Basti così. Ma questi accenni esprimono già una valutazione, un punto di vista sull’umano che ha una percezione del bene e del vero, che nella scuola di Stato non è che uno dei tanti possibili. “Questa nostra epoca eccelle nello smantellare le strutture e nel liquefare i modelli, ogni tipo di modello, con causalità e senza preavviso”, disse Zygmunt Bauman. 

Ed è così anche per la figura della leadership scolastica: mancando una comunità sociale (non statale) di riferimento, il dirigente è chiamato a far tutto e niente. In letteratura non c’è un’immagine condivisa sui compiti del dirigente e se dovessimo creare una tassonomia degli attributi che connotano le competenze, arriveremmo a decine di connotati, tutti auspicabili, ma quasi tutti inclusivi del loro contrario. 

Per contrasto, è reperibile un altro modello, assai diverso, nella scuola libera, oggi “paritaria” (…quanto si potrebbe analizzare con questo aggettivo!). Qui l’idea di uomo è dichiarato, lo scopo posto è chiaro, almeno idealmente, ed il mandato del dirigente lo è altrettanto: porre in atto tutte le procedure necessarie a realizzarlo. 

A questo proposito, abbiamo nella storia chiari modelli di leadership, non teorici, non tassonomici, ma fattuali: il leader è tale in comunità che hanno una identità, che perseguono uno scopo. Si pensi ad esempio al movimento benedettino e al monastero stesso, definito da Benedetto “schola domini servitii”, con un unico obiettivo, “quaerere Deum”. Allora l’abate (preside) non segue a priori normativi, ruoli o precedenze burocratiche, ma realizza percorsi adeguati allo scopo, con assoluto realismo (la documentazione in merito è impressionante). Ed ancora: sono i gesuiti con la Ratio Studiorum alla fine del ‘500 che inventano il dirigente scolastico, il Rettore del Collegio. E lo inventano con il preciso scopo di aiutare ogni uomo ad essi affidato a conoscere ed amare Dio attraverso “non multa sed multum”: non in quantità, ma in intensità di qualità. Tre secoli dopo il cardinale John Henry Newman sancisce il termine decisivo di una leadership che chiama in causa l’uomo: “con l’influenza personale c’è la vita (…), senza di essa un sistema accademico è un inverno artico, si ridurrà ad un ghiacciaio, una cosa pietrificata”. Se il leader non sintetizza nella direzione “lo spirito creativo e l’ascendente morale” rispetto alla realizzazione dello scopo, non c’è la vita e tutte le regole “pietrificano”. 

Ecco allora la convenienza esemplificativa delle scuole libere, nate da precisi scopi, rinnovando i quali si trovano continuamente forme vive di conduzione. Ed ecco anche la miopia, tutta italiana oggi, ancora ideologicamente figlia di Rousseau, a considerare marginale, quasi residuale, questa gamba del sistema.