Caro direttore,
in merito all’ultimo articolo di Corrado Bagnoli, dedicato (come il suo precedente) all’esame di terza media, avrei alcune considerazioni da esporre in base alla mia esperienza di insegnante di scuola secondaria di primo grado. Il motivo per cui ritengo importante ribattere è duplice. In primo luogo ritengo che si parli troppo di scuola senza sollevarne gli aspetti problematici. In particolare questo si evidenzia per quanto riguarda il livello della scuola secondaria di primo grado: il più debole e più in crisi da molti punti vista (non solo degli apprendimenti acquisiti). In questo senso non posso che ringraziare Bagnoli. In secondo luogo osservo molto spesso che se ne parla, anche nell’ambiente di lavoro, con eccessivo lamento, come se non fossimo noi stessi insegnanti a contribuire a creare determinate situazioni, immersi come siamo in meccanismi ineludibili e inevitabili. Detto questo, entro in merito alle questioni sollevate nell’articolo, che condivido ma con le precisazioni che espongo e che mi sembra diano un contributo alla possibile costruzione comune di spazi educativi degni di questo nome.
Certamente esiste una tendenza pronunciata ad utilizzare le certificazioni dei disturbi di apprendimento, che proliferano oltretutto a dismisura, in modo improprio, nell’ottica non dichiarata ma precisa di evitare il più possibile agli alunni le fatiche dello studio, in modo tale da sentirsi a posto (solo superficialmente ma non realmente) e da evitare il problema. La linea che adotto personalmente è di sollecitare sempre gli studenti a sviluppare le proprie potenzialità anche quando le diagnosi puntano (non in modo esplicito ma surrettizio) a ridurre la portata di apprendimenti che invece essi potrebbero conseguire in un determinato contesto di lavoro. In un’età in cui è ancora possibile intervenire per migliorare, ampliare, modificare le proprie capacità cognitive (il cervello è ancora in via di sviluppo, la persona nella sua complessità sta maturando) sarebbe assurdo, disonesto nei confronti degli studenti e dei genitori precludersi delle possibilità per conoscere le proprie potenzialità fino in fondo mettendole alla prova: questo è quanto spiego anche ai genitori, in un rapporto di monitoraggio e verifica continua degli apprendimenti degli studenti, anche quando la certificazione non c’è, ma ci sono specifiche difficoltà.
Tale lavoro richiede un riesame continuo della situazione e diventa proficuo solo se da parte di tutti i soggetti coinvolti (lo studente in primis nel rapporto col docente, ma anche i genitori) c’è reciproca fiducia. Inoltre il tutto diventa ancora più efficace se tutti i docenti remano dalla stessa parte e questo non è così facile, perché la tendenza ad offrire prove di valutazione standardizzate senza alcuna flessibilità legata alla situazione effettiva dei ragazzi è dilagante: spesso i docenti si muovono rigidamente nel doppio binario delle prove per chi ha disturbi di apprendimento (o, più in generale, con bisogni educativi speciali) e per chi non li ha, senza considerare il fatto che esistono diverse forme di gravità dei disturbi che nel tempo possono anche modificarsi. Senza, soprattutto, offrire strumenti di apprendimento il più possibile diversificati per raggiungere tutti. Senza, infine, considerare che poi l’esame di licenza media dovrà essere uguale per tutti per legge, a parte l’uso di strumenti compensativi o del maggior tempo a disposizione (non sto considerando i casi Dva, ovvero dei diversamente abili, per semplicità di analisi).
Detto questo, nell’ambito di un sistema che è tutto fuorché perfetto, dal modo in cui gli studenti son valutati a quello in cui sono aiutati nel loro cammino di conoscenza, dentro questi tentativi che si fanno per far sì che gli studenti possano trovare nella scuola uno spazio di crescita, in cui il dialogo tra tutte le parti coinvolte è inevitabilmente sempre aperto, mai risolto e definitivo, resta per la mia esperienza la possibilità che per gli studenti — chi più chi meno a seconda di quanto impegno ci hanno messo e quanto ci hanno creduto — questa crescita avvenga: sono diversi da quando li abbiamo conosciuti, i loro passi li hanno fatti. A mio parere una delle cose più importanti che dobbiamo insegnare ad ognuno, in quest’ottica, è di guardarsi senza misurarsi, anche se nella scuola i loro apprendimenti sono continuamente misurati. Cioè che esiste un margine di diversità anche nella valutazione, perché ognuno è diverso e questo comporta che quello che chiedo ad una persona è diverso da quello che posso chiedere ad un’altra, ed alla stessa persona oggi chiedo una cosa ma domani, accertato un suo cambiamento, ne posso chiedere un’altra. Non credo che la bocciatura costituisca sempre un buon metodo per migliorare l’andamento scolastico degli allievi. Questo vale anche per tutti i sistemi valutativi in itinere troppo rigidi e privi di dialogo con gli studenti.
Quanto esposto mi è stato confermato spesso constatando che, senza un accompagnamento di consapevolezza e di riflessione dei propri errori, accade la perdita di valore della sanzione o valutazione. I ragazzi delle medie sanno perfettamente, osservandosi tra di loro, che alcuni sono in estrema difficoltà per quanto riguarda lo studio. La cosa più importante è che ognuno riceva dalla scuola quello che è a lui adeguato per come egli è: competenze più operative, più a vasto respiro con spessore e apprendimenti culturali, più tecniche. Questa è la scuola dell’obbligo come io la intendo nella sua sostanza: l’accoglienza di tutte le diversità e lo sviluppo armonico di esse in tutti loro. Progetto ambizioso? Certamente, ma è l’unico serio che conosco.