Quanto è distante dall’oggi la nostra adolescenza? Pochi, tanti anni… non importa. Ognuno di noi ricorda le paure, le fragilità, le ansie di quel periodo che Leopardi seppe definire così bene quando lo paragonò al sabato che precede la domenica, che è la realizzazione o meno dei nostri sogni nella vita adulta. Dunque l’adolescenza è sempre uguale nel tempo, si potrebbe dire. A me sembra che quella dei giovani odierni sia connotata da una maggiore fragilità e incapacità di affrontare la vita, da una difficile accettazione del passaggio verso l’età adulta. All’interno delle pareti scolastiche, luogo e tempo delle ansie, delle paure di questa età così difficile, gli attacchi di panico evidenziano un trend in aumento. Sempre più studenti si fermano al mattino sulla soglia dell’istituto scolastico, non riuscendo a proseguire, a causa o dell’ansia per un’interrogazione, o della paura per quell’insegnante, o per la fragilità emotiva e comunicativa che si prova nella relazione con i compagni. Tutto l’ambiente viene avvertito come ostile, un muro invalicabile. 



Comincia a questo punto la discesa agli inferi dei genitori. La loro prima reazione è quella di colpevolizzare la scuola. Non importa se la causa del presunto disagio è il docente o il compagno, la scuola in toto è sempre responsabile. Che siano operai, insegnanti, medici, padre e madre sono spaventati, impreparati a gestire il problema, a trovare soluzioni. Diventano ansiosi e deboli come i loro figli. I più illuminati portano il ragazzo/a dallo psicologo, da cui però si aspettano il miracolo di una normalità ritrovata in breve tempo. Altri affermano di voler lasciar liberi i propri figli nella scelta o meno di affidarsi a un esperto, dimenticando però che gli adulti sono loro e che dovrebbero essere loro a sostenere e guidare il proprio pargolo. 



Gli psicologi spesso danno come consiglio quello di non forzare i figli: se non vogliono venire a scuola, non importa. Ogni volta che i genitori mi riferiscono questo suggerimento, mi chiedo se questa sia la soluzione giusta. Lasciare i ragazzi galleggiare in questa negatività, senza che nel profondo riesca ad emergere la voglia di lottare; trascinare i propri giorni tra crisi di panico e depressione, stesi sul letto, dimentichi degli amici, serve a far recuperare la gioia di vita e a ricominciare a fare progetti per il proprio futuro? Nella mente di questi adolescenti le emozioni si amplificano, spesso la sensazione negativa percepita non corrisponde alla realtà, ma il giovane la vive come ulteriore perdita di autostima. C’è l’incapacità di cogliere ciò che di positivo, di bello è loro accaduto: anche l’interesse dei compagni, dei docenti nei loro riguardi è vissuto in modo negativo perché ciò significa essere deboli, e quindi bisognosi di aiuto.



Cosa fa la scuola per affrontare tutto ciò? Spesso è impreparata, proprio come i genitori. Sicuramente essa comprende che questo modo di vivere la crisi adolescenziale è eccessivo e che esso è solo il detonatore che fa emergere fragilità pregresse e profonde; ma essa gestisce spesso solo l’emergenza: subito pronto il sacchetto per farci soffiare dentro nel momento in cui lo studente ha la crisi; c’è sempre qualche docente che affianca e sostiene il malcapitato di turno nell’infermeria e cerca di scavare nella sua psiche per capire la chiave di risoluzione del problema. Ogni docente affronta il disagio che si evidenzia secondo la propria sensibilità e conoscenza delle problematiche psicologiche. Gli insegnanti di discipline umanistiche in genere sono quelli più attenti e sensibili al disagio, per l’affinità con le tematiche delle loro discipline, che spesso fanno percorrere viaggi introspettivi all’interno dell’io, mentre gli insegnanti delle discipline scientifiche hanno in genere un atteggiamento più distaccato, un tantino più dubbioso sulla realtà di queste crisi.

La scuola invece è il luogo dove queste fragilità possono essere fronteggiate prima che esplodano. Se il Miur, con finanziamenti adeguati, desse la possibilità di affrontare in modo sistemico questo problema, si potrebbero assumere psicologi, anche assegnati a due/tre istituti facenti parte della stessa Rete, che assicurerebbe la presenza di questi professionisti in modo più costante e con una incisività d’azione maggiore rispetto agli interventi che comunque ogni scuola oggi programma in modo più contenuto in questo campo. Si potrebbero attivare con loro non solo sportelli di sostegno, ma laboratori annuali di riconoscimento e di elaborazione delle emozioni. In essi gli studenti potrebbero abituarsi a ripercorrere i fatti e le sensazioni vissute nella giornata e a riconoscere ciò che di positivo hanno provato. Faciliterebbe una costruzione positiva del sé, con un rinforzo dell’autostima. Gli elementi negativi potrebbero essere affrontati, elaborati, superati in gruppi di autoaiuto, supervisionati dallo psicologo della scuola. Ciò sarebbe utilissimo nella prevenzione degli atti di bullismo e nella promozione del rispetto del sé e degli altri. Si potrebbero affrontare i temi legati all’affettività, analizzati dal punto di vista degli adolescenti e non degli adulti scrivendo articoli sul blog del proprio istituto.

Tutto ciò si può fare formando i docenti, ma anche proponendo annualmente in modo strutturale corsi sull’affettività e sulle relazioni per genitori. Può essere questo un percorso unitario scuola-famiglia per creare un vero patto formativo.