Andrea, terza liceo artistico, è rimasto a Milano fino ai primi di luglio: sta facendo l’alternanza al Museo Diocesano, e gli hanno chiesto di fare da guida, previo un corso di preparazione, a una mostra sui Monti Sibillini. Il tutor dell’alternanza era il professore di matematica, ed è figlio di un musicista e di una grafica.
Stefano, terza liceo scientifico, è tornato a casa più sporco del solito: lo studio di architettura presso cui sta facendo l’alternanza, dopo la parte teorica e le regole di sicurezza, lo ha affidato a un architetto che lo porta in cantiere, si fa aiutare a prendere le misure e gli spiega come si fa a costruire una casa. Il tutor dell’alternanza è il professore di religione, ed è figlio di un ingegnere e di una ricercatrice.
Nessuno dei due, inizialmente, era particolarmente motivato a fare alternanza: tocca farla, e si fa, anche nel liceo. Ma adesso concordano sul fatto che hanno imparato moltissime cose: che il lavoro va preparato e non improvvisato, che ognuno deve tenere conto di quello che fanno gli altri, che si devono rispettare i tempi e i compiti fissati, che le cose che imparano a scuola servono anche nella vita di tutti i giorni.
Il taglio aneddotico con cui è stato affrontato il dibattito sull’alternanza da molti, troppi commentatori, potrebbe essere controbattuto da queste e da altre testimonianze dirette di ragazzini che frequentano il liceo, ma il mio intento non è di ribattere intervista su intervista, ma di partire dalla considerazione che una valutazione complessiva sull’alternanza non può nascere dalla somma di una serie, anche numerosa, di esperienze individuali, positive o negative che siano, ma da un confronto fra gli obiettivi che l’introduzione dell’alternanza stessa si proponeva, e la sua capacità di raggiungerli.
Questo confronto si chiama, vedi caso, valutazione, e tranne qualche lodevole sforzo di Indire, incaricato del monitoraggio, i cui esiti però non sono noti, o mi sono sfuggiti, non viene quasi mai applicata in modo sistematico alle innovazioni, che vengono supportate o abolite in base al noto principio scientifico per cui funzionano se introdotte da uno che la pensa come me, non funzionano in caso contrario.
Qual era lo scopo dell’alternanza? Su questo sono già intervenuta sulle pagine del Sussidiario, magari con un tono troppo scherzoso, e non vorrei ripetermi. Non insegnare un mestiere: per questo ci sono altri strumenti, tra cui l’apprendistato e gli stage. Lo scopo era piuttosto di “ricollegare” le mani e la mente, mostrando ai ragazzi che è possibile rendere operativi i concetti, spesso astratti, appresi a scuola. La cultura del lavoro è stata spesso impoverita come cosa di poca e poco rilevante qualità, così che i corsi professionali o tecnici vengono suggeriti a chi, poverino, non ce la fa a raggiungere le vette della cultura accademica, perché “non è portato” o perché, motivazione non esplicita ma molto presente, la sua famiglia non potrebbe permettersi di mantenerlo a lungo agli studi. Il ministro Lombardi, imprenditore illuminato prima che ministro, parlava dell’importanza accanto alla mano d’opera della “mente d’opera”, cioè della capacità di applicare quello che si apprendeva alla soluzione di situazioni reali. E molti insegnanti, perfino gli insegnanti del classico, constatano quotidianamente che la motivazione ad apprendere è tanto maggiore quanto più i ragazzi vedono il senso di quello che apprendono.
In un suo bellissimo libro, Fiori italiani, uno scrittore che amo molto, Luigi Meneghello, descrivendo la sua esperienza di brillantissimo studente al classico negli anni Trenta, asserisce che, allora, il problema di a che cosa servisse quello che si imparava a scuola non si poneva neppure. Si studiava e si imparava seguendo le regole di un gioco per cui si faceva così, e basta. Sarà solo l’incontro con un maestro vero, Antonio Giuriolo, che indurrà il giovane Meneghello, nel cui libretto alla facoltà di lettere classiche non figurava nemmeno un trenta (nel senso che erano tutti trenta e lode), a mettere in questione tutte le sue scelte e a reimpostare tutta la sua vita. Ora, non vorrei dire che l’alternanza sostituisce degnamente questo tipo di incontro: ma certamente, se ben fatta, consente ai ragazzi di mettersi alla prova in un contesto non protetto da adulti amorevoli che tentano di eliminare ogni problema dalla loro esperienza.
Non sto dicendo che l’alternanza è un toccasana di ogni problema, e che sia perfetta così com’è: non è né l’una né l’altra cosa. Non è, probabilmente, neppure l’unico modo per far fare ai ragazzi un salutare bagno di realtà: lo sono il volontariato, l’associazionismo, ogni forma di partecipazione. E’ però, o dovrebbe essere, una situazione programmata di apprendimento che può avere risultati molto positivi. Che spesso la realizzazione sia stata affidata da scuole svogliate o disinteressate ad insegnanti impreparati, è un fatto: che non siano stati fatti investimenti o progetti di supporto invece non è vero, perché i due bandi Pon dedicati all’alternanza hanno messo sul piatto risorse rilevanti: ci chiediamo piuttosto se le scuole siano state in grado di formare i propri insegnanti, o di attivarsi in autonomia per formulare dei progetti e valutarli.
Dove si sono create favorevoli sinergie con il territorio (un solo esempio, la Fondazione per la Scuola della Compagnia di san Paolo, che ha supportato le scuole torinesi nella predisposizione e valutazione dei progetti) o con le istituzioni, imprese, banche, assicurazioni, ma anche piccole imprese artigiane e reti di professionisti, l’alternanza ha incominciato a sviluppare esiti positivi.
Ho visto attaccare le cosiddette “imprese simulate”: anche qui, non ho visto grandi valutazioni in atto, ma là dove si è trattato di stimolare nei ragazzi quello spirito imprenditivo che li caratterizza, supportandoli con l’esperienza di uomini di impresa, magari in pensione, è stato possibile realizzare iniziative di grandissimo interesse. Del resto, in molti paesi d’Europa l’iniziativa delle Youth Enterprises, finalizzata precisamente a fare sperimentare ai ragazzi la possibilità di diventare imprenditori, è in atto con molto successo sin dagli anni Ottanta.
Certo, se ci si limita a conferenze tirate via di malavoglia, l’impresa simulata diviene una simulazione tout court, e la possiamo buttare. La scuola ha precise responsabilità di tutela della qualità dell’esperienza: la fondazione Foppa di Brescia, che nelle sue scuole fa alternanza da molto prima che diventasse obbligatoria, se riceve la segnalazione di un comportamento non tanto scorretto quanto non educativo da parte di un’impresa, che per esempio trascura un ragazzino o lo mette a fare compiti esecutivi senza nessuna indicazione, la cassa senza esitazione dall’albo dei referenti.
Tutto ruota sulla capacità di progettazione della scuola e dei suoi docenti, forse impreparati: ma si può imparare qualcosa di nuovo anche “da grandi”, mettendo alla prova un’ipotesi magari inizialmente non condivisa, anziché arroccarsi, da buoni laudatores temporis acti (ecco che viene buono il latino appreso al liceo Berchet…) sul tempo sottratto all’aoristo o ai neoplatonici. Una delle molte lettere che ho letto, centrata sullo sfruttamento dei poveri giovani, dice che “fanno tenerezza”. Permettetemi di dissociarmi. Non mi fanno tenerezza, mi fanno tristezza. Sono “vittime” non dello spirito schiavista di imprenditori tutti orientati a far lavorare i ragazzini per risparmiare sulla mano d’opera, ma della difficoltà delle scuole a costruire ambienti educativi dove ci sia spazio anche per il fuori dalla scuola stessa. Questa è la novità dell’alternanza, e cestinarla sempre e comunque senza un processo di valutazione condotto al termine del triennio mi sembra uno dei molti errori che l’ideologia impone alla scuola.