“Il problema più grave del nostro tempo non è tra quelli che si vedono denunziati a carattere di scatola nelle prime pagine dei giornali”; Eugenio Montale ce lo ha detto più di mezzo secolo fa: “ammazzare il tempo è il problema sempre più preoccupante che si presenta all’uomo d’oggi e di domani” (Ammazzare il tempo). D’estate il mostro della noia si affaccia spaventoso in troppe ore della giornata, “e poiché pochi sono gli uomini capaci di guardare con fermo ciglio in quel vuoto, ecco la necessità sociale di fare qualcosa, anche se questo qualcosa serve appena ad anestetizzare la vaga apprensione che quel vuoto si ripresenti in noi”. 



Fare qualcosa per non accorgersi del vuoto, “per ridurre al minimo le ore in cui è più facile che si presenti a noi questo odiato fantasma del tempo” e con esso la domanda che sottende tutte le altre. Ogni volta infatti che ci chiediamo “cosa facciamo stasera?” o “dove andiamo quest’anno in vacanza?”, ogni volta che perdiamo le ore in un telefono o in una serie tv, ogni volta che ci svegliamo tardi perché tanto non c’è da rendere conto a nessuno, è un interrogativo più importante di “cosa faccio?” che spinge per farsi largo: per che cosa vale la pena fare qualunque cosa? per che cosa vale la pena alzarsi dal letto, usare le proprie energie? per che cosa vale la pena vivere? che senso ha?



“Quello che avviene nel mondo così detto civile a partire dalla fine dell’illuminismo (ma ora in sempre più rapida escalation) è il totale disinteresse per il senso della vita. Ciò non contrasta col darsi daffare, anzi. Si riempie il vuoto con l’inutile. Il mondo muore di noia, l’impiego del tempo è letteralmente spaventoso. I giovani che si agitano un po’ dovunque non se ne rendono forse conto, ma il loro vero problema non è né sociale né economico. A loro non interessa più nulla, ecco il fatto. Immetteteli in una società più giusta, meglio pianificata, riempiteli di lauree e di diplomi, trovate per tutti un buon impiego e molto tempo libero, e il risultato sarà sempre lo stesso: una noia sempre crescente senza nemmeno più il conforto-sconforto dell’angoscia. Abbiamo provveduto noi anziani, noi balordi aruspici dei vari futuribili, a svuotarli di tutto. Non ci possono ringraziare, questo è certo” (Montale, Trentadue variazioni).



La noia senza nemmeno l’angoscia: eccoli tutti – ragazzi e adulti – terrorizzati dal rimanere da soli, non connessi, non aggiornati, non integrati, non omologati; tutti a “far finta di essere sani”, a gareggiare con le foto a chi mostra di stare meglio, a chi si diverte di più, a chi mangia i piatti migliori, a chi fa le vacanze nei posti più belli. Poi ci stai insieme e ti accorgi che da questa serata, da questa giornata, da questa vita non si aspettano niente: escono, e stanno bene, così, ottusi, perché sono stati insieme, perché hanno mangiato o hanno ballato. Sazi di pancia e di cuore: niente più fame, niente più inquietudine. “Sono esseri spinti alla vita intensa da una accettazione troppo miope, troppo immediata della nostra vicenda quotidiana. Non si meravigliano di nulla, e siccome la meraviglia è il fine di tutti gli uomini, poeti o no, sono indotti a cercare chissà dove il brivido, il thrill. Gente che si chiede sempre come impiegare il tempo, gente eternamente in lotta con la noia” (Montale, Solitudine).

E ora che, tutti preoccupati per il domani dei nostri figli, li mandiamo fuori a imparare l’inglese; ora cioè che la scuola invade anche il tempo libero e che ci siamo arresi all’opinione che il presente valga solo in funzione di futuri diplomi e lauree e impiego e soldi; ora che siamo diventati così borghesi da non accorgerci nemmeno più che oltre il problema sociale ed economico può esisterne uno esistenziale; ora che un ragazzo che si ponga ancora delle domande di senso non sappiamo far altro che sfotterlo; eccoci, ora abbiamo disegnato un’estate perfettamente speculare all’inverno: “si riempie il vuoto con l’inutile”. Fra poche settimane, a scuola, saranno impostati altri comandi, ma allo stesso pilota automatico dell’inutile. 

Dovremmo guardarlo in faccia, invece, questo vuoto che turbina sotto le onde dell’apparenza. E rispondergli, se proprio abbiamo coraggio. “Odio l’estate perché per molti è il tempo della dimenticanza e io detesto con tutto il cuore dimenticare ed essere dimenticata”. Vorrei “ricordarmi com’è parlare con qualcuno a cui un semplice ‘come stai?’ mette in difficoltà, dato che ormai qua sembra stiano tutti benissimo”. “‘Papà, mi sento solo’. ‘Passi la notte solo in compagnia di un computer’. ‘Ma io mi sento solo alle feste’. ‘Non ti capisco’. ‘Lascia perdere'”. “Ero piena di persone che non mi capivano, di persone che mi dicevano ‘vieni a ballare con noi, così ti distrai’ oppure ‘parla di qualche altra cosa perché mi fai venire la depressione’, non c’era nessuno che mi capiva. Ma il mio dolore è il mio dolore e non voglio mandarlo via, perché esso mi rende viva”.

Queste non sono parole di Montale, né di adolescenti disagiati, ma di ragazzi che ancora hanno un cuore in un mondo che finge di star bene, ragazzi che ritroveremo in classe. Ben educati, che a scuola non oseranno sottrarsi ai loro compiti come non si sono potuti sottrarre ai condizionamenti di genitori e amici, ma che sotto le onde del dovere sentiranno ruggire (speriamo per sempre) quelle immense domande che il mondo ignora. Cosa troveranno, dopo aver sopportato per un’estate intera le briciole dietro cui tutti sbavano? Se l’orizzonte di noi adulti rimane la bella spiaggetta, cosa avremo da dire a chi rientrerà a settembre dopo aver passato le notti a Gallipoli e aver bevuto un po’ più di un caffè alle macchinette? Riempiremo anche noi la vita con qualche corso, qualche iniziativa, qualche paragrafo, come altri l’hanno riempita di sesso e di musica e di villaggi? 

Risponderà alla noia, cioè alla domanda di senso, chi avrà voglia di ricominciare, di alzarsi dal letto. Non certo chi, d’estate, avrà imparato nel suo irrequieto far niente un po’ di inglese o trascorso qualche bella esperienza, agitandosi molto per galleggiare sempre sullo stesso punto, ma chi avrà incontrato qualcosa o qualcuno che lo ha messo in moto. Per esempio Micaela, che ha passato una settimana in montagna insieme a dei nuovi amici che le hanno lasciato intravedere la chiave segreta del mondo: “Ho intravisto un tavolo imbandito e illuminato dalla timida luce di mille candele, e mi sono alzata dalla terra da cui raccoglievo le mie briciole. Tendo la mano verso di esso e corro. Correrò tutta la vita, se questo vuol dire raggiungere finalmente quel tavolo. Vedo qualcuno che mi porge la mano. Vedo finalmente qualcuno che mi sta guidando dall’alto, qualcuno che vuole il mio bene più di ogni altra cosa. Corro, corro, corro. Ci sono persone che mi affiancano, ci incoraggiamo a vicenda. Me le voglio tenere strette, queste persone. Perché quando assaggi un pizzico di quella stupefacente emozione qual è la felicità, non ti puoi accontentare soltanto della misera allegria”.