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Sarà che la tragedia del crollo del ponte a Genova è ancora una ferita aperta, sarà che la figura di Giobbe con le sue pressanti domande già si staglia sul cielo del Meeting e delle nostre coscienze: fatto sta che non possiamo evitare di pensare alla scuola che tra poche settimane aprirà i suoi battenti, nel nostro Paese, accogliendo tra le sue mura la carne viva e più giovane di cui è fatta questa nostra collettività, senza porci un grave problema.



Abbiamo detto “scuola”, cioè il luogo non solo della socializzazione, ma in cui si trasmettono i significati che servono a costruire identità, personalità, convinzioni. Così almeno dovrebbe essere. Se si pensa alla scuola, viene spontaneo allora chiedersi: potrà, e come, non essere estranea al dramma attuale della nazione? Potranno, e come, gli insegnanti non censurare quanto è accaduto (ci riferiamo proprio al crollo del Morandi con lo strascico di dolore e di contrastanti sentimenti, tra la rabbia e la disperazione, che ne è conseguito)? I ragazzi arriveranno già distratti e, i più grandi, già piegati sui propri cellulari? Gli insegnanti arriveranno forse già sospettosi verso i cosiddetti interrogativi esistenziali e ben attenti a non infilarsi nella terra di nessuno tra chi, come succede in politica, polemizza contro l’interesse privato che non ha garantito la sicurezza dei cittadini e chi riduce la questione del crollo del ponte ad una dimensione puramente tecnica, dunque tecnicamente rimediabile? 



No, occorre trovare un’altra strada e accettare fino in fondo, magari proprio il primo giorno di scuola, introducendo un gesto di ricordo e cristiano cordoglio nei confronti delle vittime, tutte le domande anche le più scomode che possono provenire dalle giovani menti che siedono dall’altra parte della cattedra (anche là dove magari questo antico strumento di “discriminazione” tra eguali, la cattedra appunto, è stato eliminato, spostato, abbassato, ecc.). 

Non serviranno tanti discorsi, probabilmente, sul perché e sul percome, ma, come detto, un gesto che ricordi che siamo accomunati, grandi e piccoli, bianchi e neri, genovesi o veneziani o milanesi, vicini e lontani, dalla stessa umanità. La scuola inizia dal riconoscimento di tutto ciò che è umano fuori di noi e che solo l’umano che è dentro di noi può riconoscere. Se si stabilisce questo punto d’incontro, se dal gesto di umana e cristiana condivisione si passa, com’è naturale che avvenga, alle domande su quanto è accaduto, aspettiamoci che venga giù il mondo. I ragazzi, i nostri ragazzi, ci subisseranno di questioni, non politiche e non tecniche (tranne quelli già vecchi), che toccano la struttura dell’esistenza. Potrebbero per esempio chiederci: come è potuto accadere che siano morti degli innocenti? E ancora più radicalmente: perché Dio ha permesso che tanta inaccettabile sofferenza accadesse? Non poteva forse aspettare un attimo a far precipitare il viadotto, non poteva tenerlo su finché non fosse preservata del tutto ogni sua creatura?

Qui la figura di Giobbe, che sta plasmando il Meeting, ci viene in soccorso. Come figura che riassume tutta la dinamica dell’educazione, che è sempre stata, nella sua alterità rispetto alla “istruzione”, tensione tra ideale e reale, cioè richiamo ad un orizzonte che sta oltre il semplice consumo dell’esistente. Giobbe, dunque, che credeva in Dio come un bambino crede nel padre e nella madre, e che a Dio chiese il motivo della propria imprevedibile sofferenza, si eleva davanti a noi come possibile compagno di un anno intero di vita in comune, e anche di più. È quella sulla sofferenza apparentemente inesplicabile una domanda vivissima nei ragazzi, che si sentono messi al mondo per un’esigenza di bene e di felicità, e in apparenza traditi dall’esperienza del dolore, propria o altrui. 

Giobbe ci insegna che la domanda sul perché è inestirpabile. Non quella sulle ragioni tecniche di un incidente o di un disastro, ma sulle recondite relazioni tra tutto il bene per cui ci sentiamo fatti e il male in cui ci imbattiamo. E quanti filosofi, scrittori, uomini di cultura hanno cercato di sminuire la provocazione del dolore separando Dio (divenuto lontano, razionale, imperturbabile) dalla realtà dove si è, noi uomini, piccole formiche che si agitano tra impari turbolenze! No, Giobbe educatore, come emerge dal Meeting, è uno che tiene duro. Gli sta a cuore la domanda sul perché e la pone a Dio, magari litigando con Lui, perché con Dio ha stabilito un rapporto a cui non intende rinunciare. E Dio infine risponde a Giobbe, non attraverso discorsi che razionalizzano o magari addolciscono con pillole di psicologia il fatto della sofferenza, ma rivelandosi come il Creatore che si pone accanto all’uomo come il Tu, come una faccia, una presenza che diventa familiare all’uomo.

Come è accaduto a Giobbe, l’educazione che si fornisce a scuola si può staccare dal reale e diventare somma di spiegazioni da mandare a memoria che non toccano la sostanza delle cose. La sostanza è che quello che è successo a Giobbe può accadere nella scuola. Quando ad esempio l’adulto accoglie le domande dell’alunno senza ridurle o censurarle. Perché Giobbe ci insegna che il senso del dolore e della sofferenza, proprio quella che abbiamo avuto davanti ai nostri occhi in questi giorni, fatto salvo il giusto perseguimento delle responsabilità civili, non si spiega. Non si spiega con una filosofia o una relazione tecnica. La domanda sul dolore apre ad una presenza, quella di Dio che si pone accanto. Il problema della sofferenza degli innocenti è risolto (beninteso: non eliminato) nella presenza misteriosa e familiare che riempie lo stesso bisogno di spiegazione. 

Giobbe è educato e diviene educatore. L’adulto educato dalla realtà può divenire a sua volta educatore. C’è veramente da augurarsi che il fascino di questa storia, di Giobbe e del suo tormentoso rapporto con Dio, colmi gli spazi del dialogo che si sta per avviare tra i banchi. E non solo il primo giorno, ma durante tutto il percorso di un anno.