“Privando i bambini delle storie, li si trasformerebbe in balbuzienti ansiosi e senza copione […] Non esiste nessun modo per comprendere qualsiasi società, compresa la nostra, se non attraverso l’insieme delle storie che costituiscono le sue risorse originarie”. Con queste parole disposte nel saggio Dopo la virtù, Alasdair MacIntyre affida ai processi educativi il principale scopo di indicare da dove veniamo per capire chi siamo (MacIntyre, 1988, p. 258). 



La comprensione della memoria comune (da dove veniamo) – esperienza necessaria per l’acquisizione dell’identità personale (chi siamo) – è possibile solo attraverso la consuetudine con gli ideali e i valori specifici di una comunità. La loro narrazione illumina l’opacità dei fatti con la luce di un senso complessivo. Che cos’è la cultura, si chiede il filosofo scozzese, se non una grande narrazione legata al bisogno dell’uomo non solo di organizzare il sapere, frutto delle sue esperienze, ma anche di “narrarlo” e, nella condivisione di questa narrazione, riconoscersi parte di una tradizione che si svolge nel tempo? 



C’è chi ha recentemente paragonato, sulla scia dell’analisi socio-culturale di Jerome Bruner (e dunque in un contesto distinto, ma pur tangente con quello macintyriano), l’esercizio culturale ad un forum: un processo di continua costruzione e ricostruzione, di metacognizione in cui gli individui non sono spettatori, ma protagonisti. Esigenza posta dalle continue sfide del presente e dall’indefinito futuro e dal conseguente riposizionamento che ci è continuamente richiesto. 

Se non siamo sostenuti da una adeguata strumentazione culturale si resta in balia delle mode, delle emozioni passeggere, dell’incalzare delle suggestioni che s’inseguono, una dopo l’altra, veicolate dai social. C’è da chiedersi se la scuola possa restare insensibile al rischio dello spaesamento dovuta alla povertà di radici culturali. In questo senso ho parlato in un precedente articolo della narrazione culturale come una delle principali responsabilità della scuola, oggi purtroppo vittima di due pregiudizi orientati a svalutarla. 



Il primo riguarda la convinzione che sia davvero appreso soltanto ciò che è direttamente scoperto e subito fruibile e che quanto è invece trasmesso e richiede sforzi a medio-lungo termine sia viziato da nozionismo, obbedisca a canoni ormai superati (perché ancora leggere Manzoni?) e sia soggetto alla opinabilità e ai gusti di chi insegna. 

Per contrasto si puntano tutte le carte sulla costruzione del presente fino ad arrivare in talune proposte ad azzerare i canoni, a rinunciare ai libri di testo, a privilegiare la ricerca on line, a praticare metodologie didattiche non avvalorate da conferme sperimentali tra cui la più gettonata è in questo momento la cosiddetta “classe rovesciata”. Il problema è forse un altro: molti limiti imputati alla narrazione culturale dipendono semplicemente dalla mediocre capacità di comunicazione dei docenti. 

Il secondo pregiudizio è legato alla diffusa e crescente opinione che nella scuola abbia diritto di cittadinanza soltanto “ciò che serve”. Questo convincimento produce, d’un lato, il rischio di un forte ripiegamento della scuola in senso funzionalista e, dall’altro, l’idea che tocchi alla scuola cucinare una sorta di spezzatino di “educazioni”, da quella stradale a quella finanziaria, da quella alla legalità a quella all’uso dei media e via di seguito con il relativo ricorso a un impiego spropositato di “progetti”. 

Nessuno nega l’utilità di ciascuna delle tematiche sopra indicate, ma la conseguenza è che per far posto a una frettolosa interpretazione dell’utilità scolastica si dovrebbero semplificare e sforbiciare i contenuti più sistematicamente legati al “da dove veniamo” giudicati di volta in volta meno appetibili dei progetti, poco “interessanti”, “disinteressati”, “noiosi”, “nozionistici” e perciò superflui. È stupefacente che uno snodo così strategico e cioè la ritirata della scuola dalla vita culturale che dà senso alla comunità nazionale sia poco o nulla frequentato dal dibattito politico scolastico. 

Non è in sé sbagliato interrogarsi sull’utilità della scuola. Tutto dipende dalla risposta: se ridurla entro orizzonti funzionalistici e cioè esercitare primariamente la ginnastica mentale degli allievi in modo da renderli capaci di risolvere problemi e impadronirsi di competenze oppure anche – non contro – aiutarli a chiedersi cosa ci stanno a fare nel mondo, per esempio confrontando la loro esperienza con quella di quanti hanno aperto la strada al nostro tempo e lasciato testimonianza su come hanno provato essi stessi a rispondere agli interrogativi che accompagnano la vicenda umana.