Un pesante silenzio sembra calato sulla scuola. Di per se il silenzio non è necessariamente cosa negativa: c’è un silenzio operoso, così come una agitazione sterile, se non dannosa. In parte il silenzio è dovuto alla peculiarità italiana. Non è detto che ad un lungo passato carico di cultura debba corrispondere un presente caratterizzato allo stesso modo. Anzi, a volte i popoli se ne stancano, si direbbe, e vogliono ricominciare da capo.



Ma l’impressione è che il problema non sia solo italiano. Dopo l’89 e il collasso dei modelli di società alternativi — soprattutto per quanto riguarda lo sviluppo economico e sociale — abbiamo assistito all’egemonia ideologica del liberismo. Questo ha significato sostanzialmente per la scuola scommettere sull’ipotesi di uno sviluppo economico-sociale basato sull’istruzione di massa — secondo la teoria del capitale umano — e pertanto sulla necessaria efficacia delle scuole, da ottenersi attraverso il binomio autonomia e valutazione ed a livello didattico su impostazioni attivistiche e costruttivistiche finalizzate allo sviluppo delle competenze. Questo modello, sia pure con parziali aggiustamenti, è dilagato nell’Est europeo ex comunista, nell’East Asia e, attraverso gli organismi internazionali come l’Onu e le sue articolazioni e la Banca mondiale, anche in Africa ed in parte nel Centro-Sud America. 



Ora però si comincia a vedere che la graduatoria dei paesi Pisa non sembra variare significativamente, nonostante l’attivismo di almeno alcuni paesi e che sempre in Pisa non sembra facile identificare fattori “di processo” realmente incisivi. Il peso dell’Escs (economic, social and cultural status) rimane preponderante e il trionfo delle tigri asiatiche mette alla ribalta fattori legati alla storia ed alla cultura (vedi il rinnovato interesse nelle analisi Pisa per il clima disciplinare delle scuole). Ed i risultati degli ingenti capitali investiti tardano a vedersi soprattutto in Africa: a percentuali altissime di alfabetizzazione formale corrisponde un forte analfabetismo sostanziale. Forse un eccesso di aspettative salvifiche sull’istruzione, vista come un tool totalmente fungibile in ogni contesto, indipendentemente dalla sua cultura antropologica. Il che ha significato grandi successi in East Asia, dove questa cultura antropologica rivela forti assonanze con elementi chiave del cristianesimo europeo ed americano, e grandi difficoltà dove prevalgono le dissonanze.



Del resto, il Novecento tutto sembrava avere scommesso sulla perfettibilità dell’uomo, nella sua prima parte attraverso il cambiamento delle strutture sociali, nella seconda in gran parte attraverso la diffusione universale del modello “umanistico” di cultura e stile di vita attraverso la scuola. George Steiner nel suo fondamentale Errata cita Trotzkij: “L’uomo diventerà incommensurabilmente più forte, più saggio e più acuto, il suo corpo diventerà più armonico, i suoi movimenti meglio ritmati, la sua voce più musicale…L’uomo medio raggiungerà le vette di un Aristotele, di un Goethe, o di un Marx. E al di sopra di questa catena montuosa si ergeranno nuove cime”.

Forse però il vero cambiamento l’hanno fatto la scienza e le tecnologia, molto attraverso i consumi.

Vale forse la pena riflettere sugli aspetti di questa impasse legati alle metodologie didattiche. In Italia monta la polemica contro le competenze, senza che peraltro siano mai state nelle aule realmente perseguite, limitandosi per lo più la loro ossessiva presenza ai ludi delle aule di formazione. Non ha forse tutti i torti chi intravvede il rischio che il “costruttivismo de noantri” si risolva in un trionfo dell’ignoranza presuntuosa e pressapochista. Ma forse il vero rischio è quello di un ritorno ai buoni vecchi tempi non solo nella pratica ma anche nel “dover essere”. Sovranismo sui banchi?

Le radici delle metodologie didattiche sopra citate vengono da un contesto elitario: intellettuali europei o di origine europea della prima metà del secolo per i quali gli allevi — mi si scuserà la grande semplificazione — erano già “pieni” e dai quali si poteva estrarre il sapere senza imposizioni controproducenti, in un contesto anche di gioco e di gratificazione intellettuale. Non che non sia possibile ed anzi doveroso e produttivo utilizzare una simile metodologia. Ma assolutizzarla rischia di non funzionare, anche perché ci vogliono non solo allievi pieni (di stili comportamentali oltre che di depositi conoscitivi) ma anche insegnanti ad hoc. E’ possibile nelle società umane che lo siano centinaia di migliaia? Nel nostro paese l’allegro anarchismo italiano travestito da libertà di insegnamento non permette che la minoranza “piena” dia una vera mano a chi legittimamente ed umanamente non lo è proprio.

Che fare allora? Solo evitando investimenti eccessivi si può evitare la smobilitazione ed il ritorno ai buoni vecchi tempi da parte di un paese, a quanto pare, stanco di cultura. Non disinvestire, ma investire il giusto con aspettative realistiche. Accettare la differenziazione fra le capacità e le vocazioni e differenziare gli approcci didattici in relazione ai contesti e agli interessi. Ivi compresi quelli delle competenze, che ovviamente senza le conoscenze sono solo, si sarebbe detto una volta, “aria fritta”.