A leggere la mole di pubblicazioni sul liceo classico verrebbe persino il mal di testa a un topo di biblioteca o a un wormbook, come si dice nella lingua più “geniale” parlata nel mondo attuale. A voler essere meno filologicamente corretti, cioè meno legati all’acribia (parola di Tucidide transitata nel lessico specialistico degli antichisti), si potrebbe fare una rassegna stampa degli articoli digitalizzati sul liceo classico: come sintetizzarli?



Il liceo classico è diventato un business legato alla mercificazione della parola, basata cioè sulla ricerca di un mondo passato che vuole essere tenuto in vita con la flebo, dalla maggioranza di un sistema accademico-liceale italiano che non ha eguali al mondo.

Tanto è cospicua la “produzione” di ottimi specialisti in antichità che la “fuga dei cervelli” dal Belpaese è un continuo flusso. Esiste nella prassi accademica il call for paper (l’inglese non è veramente una lingua geniale?), in cui dotti di un ateneo chiamano a raccolta dotti di un altro ateneo su specifiche tematiche per organizzare un convegno: ebbene, i nomi dei nostri compatrioti operanti in università straniere sono ovunque, a dimostrazione che siamo un popolo di emigranti intellettuali e di raccomandati seriali. Basterebbe leggere un bel libro di Nicola Gardini (I baroni. Come e perché sono fuggito dall’università italiana).



Si moltiplicano così in Italia le iniziative per rianimare un malato eccellente qual è il liceo classico, tanto che in alcuni, per dare un tocco di appeal con il mondo contemporaneo reale e affaristico, si è introdotto lo studio — opzionale — della lingua cinese. Qualcuno immagina i nostri ginnasiali come novelli Champollion, colui che decifrò i misteriosi geroglifici egiziani…

Per chi voglia avere una bussola che lo orienti in questo dibattito consiglio la lettura di un bel contributo della professoressa Rosaria Liuzzi, facilmente reperibile in rete: “La cultura e la formazione classica nella società contemporanea. Rassegna di un dibattito culturale (aprile-ottobre 2016)”.



Rimane da scoprire quale sia la “forza” della paideia “offerta” (formativa) del liceo classico nel terzo millennio. Perché studiare il greco antico e il latino: insomma, quale sarebbe la “decima regola” che un best-seller come quello della Marcolongo non ha osato rivelare al grande pubblico? Ognuno naturalmente si cerchi la sua risposta, come Diogene con la lanterna: sarebbe bello ascoltare anche la voce dei docenti che insegnano ogni giorno ai giovani le lingue classiche (oltre agli accademici…).

Proverò a dare la “mia” risposta, che è contenuta in una forma grammaticale della lingua greca: l’aoristo passivo.

L’aoristo (che vuol dire “indefinito”) è un “modo” verbale del greco antico ed esprime l’azione pura e semplice: “serve” a narrare (nelle versioni scolastiche si traduce solitamente con passato remoto), ma è anche “gnomico”, cioè legato alla saggezza. Sul tempio di Apollo si leggeva la massima: “Gnothi seauton“, cioè “Conosci te stesso!”. Tale verità è stata immortalata sulla pietra, ma anche nella lingua con una struttura grammaticale precisa: l’aoristo, per indicare la conoscenza pura e semplice. Se il greco antico avesse usato il presente, si sottolineava lo svolgersi dell’azione del conoscere.

Allora l’aoristo passivo è un ossimoro paradigmatico della complessità e della “liquidità” su cui il mondo attuale si basa: la narrazione e la saggezza che cercano di far deflagrare la “passività”, intesa come omologazione, mancanza di pensiero critico, appiattimento culturale, standardizzazione, cioè la “robotificazione” di una umanità sempre più disorientata.

I nostri giovani al liceo classico possono ribellarsi contro la metafora dell’aoristo passivo.