Inizia un altro anno scolastico, cambiano i governi, cambiano i ministri, ma la situazione per le scuole paritarie diventa sempre più critica. Alcuni recenti articoli apparsi sul Messaggero a firma di Lorena Loiacono, riportati anche dal sito della Flc-Cgil, sindacato un tempo acerrimo nemico delle “scuole private”, oggi in parte schierato su posizioni meno ideologiche, rimettono a tema la questione. Ma se si stemperano le posizioni a sinistra, lo statalismo di ritorno del M5s propone vecchi slogan contro le scuole non statali e c’è da credere, nonostante le assicurazioni verbali del ministro dell’Istruzione leghista Marco Bussetti, che nessuno interverrà ad aiutare un sistema di istruzione che la legge 62/2000 organizzava su due aree distinte: le paritarie private e degli enti locali e le istituzioni statali. Il dissanguamento continuerà e l’impoverimento del pluralismo educativo è già oggi un dato di fatto.



Vediamo alcuni dati. Secondo Tuttoscuola, nel 2015 e nel 2016 hanno chiuso ben 415 scuole paritarie, con un ‘accentuazione nel Meridione: la Sicilia ha perso 104 scuole e la Campania 70, la Puglia 28 e la Calabria 22. Più in generale nel 2016-17 erano iscritti nei 12.996 istituti non statali 903mila ragazzi e bambini, ma solo nel 2012-13 gli iscritti, secondo uno studio di Paola Guerin e Marco Lepore, erano 1.036.000 spalmati su 13.825 scuole. Insomma in 4 anni si sono persi oltre 100mila alunni e ben 829 scuole. 



Inoltre la Fism, le cui scuole accolgono circa 600mila bambini da zero a sei anni, fa notare che gli interventi statali per le scuole dell’infanzia paritarie nel 2017 sono stati pari a 1,95 centesimi al giorno per bambino, mentre nella scuola statale per ogni bimbo è stato speso 26,08 euro. Una disparità evidente che tuttavia non spiega completamente la crisi in atto. Se nell’infanzia il calo demografico ha cominciato a incidere e a modificare in modo sensibile la piramide della popolazione italiana, il gap alle medie e alle superiori è più complicato da interpretare. Certamente la crisi economica si è fatta sentire, in modo particolare al Sud, visto che, come abbiamo mostrato, le chiusure di scuole sono particolarmente evidenti, ma anche l’invecchiamento dei religiosi e la crisi degli ordini ha inciso nel panorama delle paritarie.



La riduzione del personale religioso non solo incide sui costi di gestione, ma rende meno evidente il carisma educativo e il legame con i valori fondanti si diluisce, tanto che, piano piano, si smarriscono le motivazioni ideali dell’impegno educativo. 

E così succede che le vecchie scuole cambino uso, trasformate in strutture sanitarie o di ospitalità. In questo senso risulta evidente come la dimensione ideale risulti determinante nel settore educativo e il fattore delle risorse umane sia un elemento che si fa sentire sempre di più. 

Non è dunque una questione solamente economica, anche se bisogna dire che i 493 milioni stanziati per il 2017-18 non sono per nulla sufficienti. I costi aumentano in tutte le direzioni e solo per fare un esempio il “decreto dignità”, approvato nel luglio scorso, ha ridotto la possibilità di stipulare contratti a tempo determinato da 36 mesi a 24, ma per una clausola uscita da un azzeccagarbugli nelle scuole i contratti non potranno superare i 12 mesi. In questo modo la tendenza a rendere il lavoro esclusivamente a tempo indeterminato di certo non giova ai conti economici degli istituti non statali. 

Tuttavia se gli adeguamenti normativi, gli aumenti contrattuali e le spese di gestione fanno lievitare i costi e facilitano le chiusure, c’è un altro fattore di cui parlare. In questi decenni di inizio millennio si sta palesando un forte ridimensionamento della socialità e i legami associativi sono sempre più blandi. Nella scuola il fattore dell’appartenenza è più rilevante che in altri ambiti e la dimensione identitaria incide fortemente sull’avventura educativa. In altre parole si sta perdendo la tensione a costruire spazi aggregativi e di condivisione ideale, per cui la voglia di fare scuola svanisce e la gente si affida sempre di più allo Stato. Siamo dunque nel mezzo di una profonda crisi culturale, un cambio d’epoca che nell’assolutizzare l’individuo fa smarrire le identità comuni e di conseguenza la loro trasmissione.