Ho collaborato per anni con una scuola professionale, nata con un gruppo di amici impegnati nel recupero dei ragazzi “difficili” di un tratto di periferia particolarmente degradata (prima tappa di papa Francesco nella sua visita a Milano dell’anno scorso). Molti ragazzi, abbandonata la scuola, girano ancora oggi senza meta apparente fra le case popolari e spacciano piccole dosi di droga. La sera rientrano a casa, attraversando cortili disseminati di elettrodomestici arrugginiti e carcasse di motorini rubati. Non suonano il citofono, divelto da tempo, né prendono l’ascensore, sempre guasto. Salgono a piedi scale dai muri scrostati, incrociando ai pianerottoli qualche anziano che prende fiato, tra un piano e l’altro. Rientrano in una famiglia carnefice e vittima di componenti già perduti: un padre in carcere, una madre alcolista, un fratello drogato: un groviglio di male procurato e subìto, in un clima di omertà colpevole e incomprensibile, come in casi accertati di ragazzine abusate da un familiare.
I nostri corsi, all’inizio, erano ospitati in poche stanze della parrocchia, poi in una palazzina dell’Aler, già Istituto per le case popolari, e infine in un grande edificio scolastico lasciato libero dalle Suore Rosminiane. Oggi i corsi sono cresciuti in numero e tipologia: è nato un ente di formazione fra i più significativi della Lombardia, con più sedi e corsi finanziati da privati, Regione Lombardia e Comunità Europea. Ora gli allievi provengono in maggioranza da famiglie normali, con un figlio che non se la sente di affrontare il liceo e poi l’università, o che semplicemente non ha voglia di studiare, o che è apatico di fronte ad ogni prospettiva.
Eppure questo ente di formazione accoglie tutti e li accompagna indicando una meta. Diversi allievi finiscono, contro ogni previsione iniziale, all’università. “Come mai?”, chiede un’ispettrice regionale colpita dall’alto livello di successi anche nei casi più difficili: quelli dei ragazzi che frequentano i primi giorni su pressione iniziale dei genitori e poi si ritirano. In questi casi gli insegnanti del ragazzo, a turno, lo chiamano al mattino presto a casa: se è ancora a letto, se lo fanno passare al telefono dalla madre, incerta se svegliare il figlio o meno. Seguono quattro chiacchiere col ragazzo che, magari brontolando, cede.
Nessuno intervento dello psicologo di turno, nessuna applicazione di una direttiva ministeriale: solo una telefonata che colpisce il ragazzo, che si sente “guardato” dall’insegnante. Brontola, ma va in quella scuola che lo prende in considerazione, che lo cerca a casa, che gli dà un’occasione di riscatto, che non lo abbandona nelle “percentuali fisiologiche” dell’abbandono scolastico. Oggi, chi non rientra in queste percentuali, è promosso: sempre alla fine delle medie inferiori, e quasi sempre a quella delle superiori. Il livello di qualità degli insegnanti non influenza le percentuali bulgare dei “maturati”.
Tutti “maturi” per affrontare l’università o la ricerca di un lavoro? Non proprio. Il figlio di papà ha studiato l’inglese all’estero nelle vacanze o lo aspetta un posto nell’azienda di famiglia; è andato a ripetizioni private per le materie più dure e poi per prepararsi ai test di ammissione all’università. Anche il ragazzo meno abbiente, di norma, è stato promosso, ma sa meno e ha meno chance: l’ascensore sociale, per lui, è bloccato.
Occorrerebbero insegnanti come quelli dell’ente di formazione che ho descritto, ma una passione così la legge non la chiede né la può imporre. Lo Stato, tuttavia, potrebbe e dovrebbe individuare professori capaci, al di là di graduatorie, corsi e concorsi: insomma, dovrebbe trovare modi idonei per selezionare buoni insegnanti e verificarne periodicamente l’operato. È giusto il contratto a tempo indeterminato ma non l’inamovibilità, di fatto, per tutti, inclusi i professori incapaci, inadatti o assenteisti. Per i ragazzi meno abbienti i buoni professori vengono prima di qualsiasi riforma.
Un giudice della Corte Suprema della California nel 2014 si era espresso a favore del licenziamento degli insegnanti non meritevoli perché la loro presenza privava gli studenti del loro diritto costituzionale a ricevere una buona istruzione. Nella motivazione si leggeva che il posto fisso dei professori “danneggia soprattutto gli studenti poveri… Le prove sono incontrovertibili e ciò davvero sconvolge la coscienza”.