Un caro amico mi gira una frase di C.S. Lewis come viatico per il nuovo anno scolastico: “Il compito del moderno educatore non è di disboscare giungle, ma di irrigare deserti”. Penso che quello che ha scritto Lewis sia diventato oggi più che mai di una strabiliante attualità. Tanto che la sua può anche essere considerata una profezia.



D’altro canto la percezione del deserto è propria delle anime sensibili e grandi. Ha scritto Leopardi nel Frammento sul suicidio, in appendice alle Operette morali, che “o la immaginazione tornerà in vigore, e le illusioni riprenderanno corpo e sostanza in una vita energica e mobile, e la vita tornerà ad esser cosa viva e non morta, e la grandezza e la bellezza delle cose torneranno a parere una sostanza e la religione riacquisterà il suo credito; o questo mondo diverrà un serraglio di disperati, e forse anche un deserto”.



Un serraglio di disperati e un deserto. Bestie che vivono d’istinti nel loro tentativo di nascondere la disperazione, il loro deserto: il mondo non è forse incamminato verso questa gloriosa meta? Lo strano Potere che ci costringe ad obbedire ad ordini che nessuno ha pronunciato (Pasolini dixit), non ci vuole forse tutti revoluti in noi stessi, sulle nostre provviste, nel nostro splendido carcere di solitudine?

Non lo percepite il deserto? Io sì. Lo incontro ogni giorno nel mio lavoro di docente e succederà ancora quest’anno. Il ragazzo che ha perso la voglia di studiare è un deserto. La ragazza che studia solo per il voto e impara tutto a memoria è un deserto. Quello che ha un lieve handicap e vi si è adagiato è un deserto. La famiglia che pretende dal figlio prestazioni eccezionali è un deserto. La famiglia che abbandona il figlio a se stesso è un altro deserto. La classe divisa e competitiva al suo interno, dove i ragazzi hanno paura di esprimere il loro parere, perché temono il giudizio degli altri, è un deserto. Potrei continuare con un lungo elenco, magari estendendo la riflessione all’atteggiamento dei colleghi, ma preferisco fermarmi qui.



Torniamo alla frase di Lewis, che invita soprattutto ad irrigare il deserto, piuttosto che disboscare giungle. Disboscare è un verbo che implica un’azione violenta, dura, netta. Irrigare è una cosa diversa: significare donare, “investire su”, guardare lontano, più che all’immediato; attendere, con pazienza, che il terreno dia frutto. E’ un’operazione lunga e lenta.

Attenzione: non si tratta di negare l’importanza del disboscare, perché, come abbiamo detto, stiamo tornando una società di bruti in un serraglio. Si tratta piuttosto di scommettere su una possibilità: che l’irrigare produca anche il disboscamento, che il deserto, trovandosi cambiato, ringrazi e desideri diventare un campo buono e fertile.

Ma sorge un problema. Per irrigare serve l’acqua. Il moderno educatore ce l’ha? Si parla di innovazioni nella didattica, di formazione, di tecniche, come se bastasse un pozzo per irrigare un campo. Un pozzo ben fatto, ben costruito, realizzato secondo gli ultimi ritrovati della tecnica potrà stare in piedi e far bella mostra di sé, ma non è automatico che dia acqua. Nel suo fondo potrebbe esservi solo terra o una fanghiglia inservibile. Domanda: la formazione dei docenti prevede lo stupore? Non posso che definire con questa parola l’acqua vera che serve all’educatore e più che mai all’educando. Lo stupore lo può dare solo un docente che sia a sua volta stupito di quello che insegna e delle persone alle quali insegna.

Il mondo ha bisogno di stupore, proprio oggi che tutti sembrano sapere tutto, che la conoscenza sembra a portata di mano sul web, che l’alfabetizzazione è garantita dalla scuola statale gratuita. Noi docenti abbiamo bisogno di questo stupore, se vogliamo porci nel delicato ed esaltante compito di irrigare i deserti che incontriamo. Non conosco intuizione più grande e vera di quella contenuta nella frase di San Gregorio di Nissa: “Solo lo stupore conosce”. Quando intercettiamo lo stupore dei nostri ragazzi stiamo vincendo la scommessa. Quando vomitiamo dati per “andare avanti col programma” la stiamo perdendo.

Dunque ripartiamo da qui, da un atteggiamento umano, prima ancora che professionale. Il deserto ci aspetta. Non è un bello spettacolo, il deserto. Ma vederlo spaccarsi perché nasca un fiore (che sia la ginestra di Leopardi o la margherita di Montale), quello sì che è un grande spettacolo! Si tratta di irrigare, irrigare, irrigare. Preoccuparsi solo di questo, perché è difficile e faticoso, forse anche più del disboscare. Perché? Perché non sempre nell’immediato si vedono i risultati dello sforzo. E forse saranno altri a vedere la fioritura.