Vi ricordate della querelle circa il bonus per il “merito” dei docenti, previsto dalla “Buona Scuola” di Renzi? Uno degli aspetti su cui si esercitava lo strapotere dei presidi-sceriffi, in una logica di aziendalizzazione della scuola eccetera eccetera? Comunque la si pensi, occorre riconoscere che su questo punto un piccolo merito la legge 107/2015 l’ha avuto: il coraggio di aver ri-toccato (Berlinguer ci aveva provato, a proprie spese…) questo punto nevralgico del sistema-scuola. Naturalmente in modo molto soft, in un testo di legge comunque già fortemente depotenziato dal potere sindacale prima di vedere la luce nella sua versione definitiva. 



Nel sistema scolastico statale, di fatto, è ormai impossibile porre a tema e sviluppare qualità, elemento decisivo per un servizio pubblico, specialmente se rivolto alla leva più importante per il futuro e il rilancio del Paese, ossia la formazione e lo sviluppo dei talenti dei giovani. Certo, è stata introdotta la valutazione di istituto, che dovrebbe rompere con l’autoreferenzialità delle scuole, costringerla a misurarsi con la realtà e a “rendicontare” all’utenza circa i passi di miglioramento compiuti. Certo, l’ordinamento già a partire dalla fine degli anni 90 è avanzatissimo e prevede tutte le possibili forme di flessibilità e autonomia per declinare i curricoli, gli interventi didattici, i quadri orari, le metodologie, ecc. secondo modalità di personalizzazione e di aderenza ai fabbisogni educativi e territoriali. Ma quanto di tutto ciò viene — e può essere — realmente attuato, a parte quei pochissimi eroici casi, che assurgono così, ipso facto, al rango di eccellenze? Quasi nulla. 



A trasformarlo in un miraggio rimangono l’inalterato, barocco sistema che regola il (posto di) lavoro docente e i meccanismi allucinogeni di reclutamento e della mobilità, di certo non pensati in funzione del servizio all’utenza. Gli orari rimangono graniticamente fissi, calibrati sulle esigenze (poco scolastiche) dei docenti e la didattica non può essere toccata, in quanto terreno autogestito dalla corporazione. La stessa valutazione di istituto assume sostanzialmente la forma di una “autovalutazione” e gli elementi di confronto e controllo “terzi” — seppur previsti — sono debolissimi. I dirigenti, che dovrebbero promuovere e garantire un servizio pubblico di qualità, non hanno nessun potere e strumento reale per incidere sugli esiti e sui processi di apprendimento. I poteri e gli strumenti sono infatti solo rivolti agli aspetti formali (rispetto dell’orario di servizio, adempimenti, ecc.), non a quelli di sostanza, come appunto la qualità e l’efficacia dell’insegnamento, il miglioramento dell’offerta e del servizio. Peccato che ci sia una bella differenza tra il “recarsi sul luogo di lavoro” e il “lavorare”. E il lavorare “bene”, specialmente in un campo come quello dell’educazione.



Ma torniamo  al “bonus”. Casistica interessante. La norma (art.1, cc. 126 segg. della legge 107/2015) lo prevedeva — usiamo coscientemente l’imperfetto — per “valorizzare il merito del personale docente di ruolo” e recitava così: “Il dirigente scolastico, sulla base dei criteri individuati dal Comitato per la valutazione dei docenti, assegna annualmente al personale docente una somma del fondo del merito sulla base di motivata valutazione” (c. 127). La responsabilità — patata assai bollente… — era dunque in capo al dirigente; era inoltre previsto un apposito fondo, distinto da quello di istituto destinato alla retribuzione delle attività aggiuntive e dell’incremento della prestazione lavorativa, con una propria finalità, da queste ultime distinta, anche se la modalità “accessoria” della retribuzione rimaneva la stessa. La definizione delle stesse modalità concrete di individuazione dei beneficiari rimaneva in capo al dirigente, fermo restando l’obbligo di operare nell’ambito di criteri fissati dal Comitato preposto e di motivare la propria scelta. Una circolare esplicativa Miur del 19 aprile 2016 sottolineava come il numero dei beneficiari non potesse essere eccessivo, affinché la premialità non venisse de facto svuotata.

Si tratta evidentemente di una piccola cosa — il “bonus” non prefigurava di certo alcun avanzamento o diversificazione di carriera, la quale rimane ancora graniticamente ancorata alla modalità impersonale della progressione temporale —, ma alquanto indigesta in un sistema come quello scolastico basato sulla mediocrazia e sul principio — falso — che tutti quanti, in quanto dotati di “titolo” abilitante alla professione, sono egualmente bravi e meritevoli. 

Ebbene, com’è andata? Sul piano fattuale, la stragrande maggioranza dei dirigenti (non consideriamo qui quello sparuto gruppetto di fuori di testa che hanno agito in modo assolutamente arbitrario e non sulla base di criteri e evidenze concordate) ha demandato alla propria responsabilità, com’è purtroppo nello stile di buona parte dell’amministrazione, lasciando decidere direttamente alla componente docente non solo i criteri, ma anche le modalità di rilevazione del merito, anche sulla base delle spinte sindacali che intendevano assimilare questo fondo a quello di istituto, per compensare la sua esiguità e in nome delle impossibilità di definire il merito in termini oggettivi (ossia non di mera attività svolta). La soluzione più gettonata è stata quella di un questionario di autovalutazione (!?), predisposto direttamente dai docenti e da loro compilato su base volontaria (!?), dove venivano considerati anche, se non principalmente, le attività aggiuntive all’insegnamento (!?), come se il merito non fosse legato alla qualità e al valore aggiunto di ciò che si fa, ma al fare cose in più rispetto all’insegnamento. In molti casi la componente dell’utenza (genitori e studenti) non è stata considerata o ha avuto un peso del tutto marginale; in molti altri la percentuale dei beneficiari è stata così alta da configurare una distribuzione a pioggia del bonus, nei termini, appunto, di una retribuzione aggiuntiva. Misera, certo, ma tale almeno da non rovinare il clima delle buone relazioni tra i docenti, per grazia di Dio (pardon: del “titolo”) tutti quanti meritevoli. All’immaginazione di ognuno l’attendibilità e la significatività dei risultati!

Ma la vera novità non sta qui, bensì nel nuovo accordo definito in sede contrattuale con la parte sindacale. Dopo un’iniziale resistenza, in nome della destinazione d’uso vincolata espressamente prevista dalla 107 che non ne prevede la contrattualizzazione, la ministra Fedeli nel nuovo Ccnl del comparto scuola ha poi concesso la sottrazione di 70 milioni dal fondo del merito per garantire — indistintamente — ai docenti italiani 96 euro di aumenti salariali medi, nonché la definizione in sede di confronto con la rappresentanza sindacale di istituto (Rsu) dei criteri in base ai quali deve operare il dirigente (vedi art. 22, c. 4, lett. c4).

E’ in questa veste, ormai ulteriormente depotenziata e snaturata, che è entrato così a regime il bonus del merito degli insegnanti. In una forma, tra l’altro, che esprime una chiara violazione non solo del dettato della legge 107 che attribuisce i criteri al Comitato per la valutazione dei docenti, ma anche della previsione del nuovo testo dell’art. 2 del Dlgs 165/2001, rimodellato dal DLgs 150/2009 laddove espressamente si dice che gli accordi e i contratti collettivi possono derogare alla legge, ai regolamenti e agli statuti solo se espressamente previsto: le disposizioni contrattuali in contrasto con norme di legge imperative sono nulle ed automaticamente sostituite.

Ma avete forse sentito qualcuno alzare sdegnosamente la propria voce? Dove sono quei dirigenti scolastici che hanno contestato la posizione del nuovo ministro in materia di vaccini, a ragione, non sulla base (spero) della loro opinione — aspetto che deve passare in secondo piano in chi è “legale rappresentante” di una istituzione —, bensì in quanto non è possibile con un atto amministrativo bypassare una norma?