La storia parlamentare d’Italia si arricchisce di un nuovo capitolo: taluni rappresentanti di quei partiti/movimenti i cui capi sono soliti dire “Gli italiani sono con noi” forse lo avrebbero voluto, che gli italiani fossero con loro, ma non è stato possibile, oppure concesso.

Questo perché dopo aver paradossalmente votato contro la linea decisa nelle segrete stanze del potere, hanno confessato la loro malvista azione.



Così, da un errore di confusione consistente in un capovolgimento di fronte, da cui poteva discendere del buono, e del bene, ora, con la falange schierata sul “No, non s’ha da fare” tutto non solo appare molto più difficile in termini di stabilizzazione di un numero rilevante di precari che hanno stabilizzato loro la scuola.



E’ sintomatico che in Italia proprio la scuola sia uno dei maggiori territori d’instabilità, stabilizzato nei suoi precari, portati già dal 2016 ad una svolta (buona o cattiva è materia di altro discutere) dopo anni, percorso in lungo e in largo da politici ad uso e consumo di voti e di consensi e poi frettolosamente abbandonato, così pure terreno fruttifero di carriere sindacali, così come dannazione di studenti e genitori nella presa di coscienza che di palestra di vita con relativi istruttori adeguatamente formati e motivati ce n’è poca, ma di palestra di piazza e di occupazione molto di più.



Ma ad oggi è il decreto milleproroghe a tenere banco per capire se colpisce in modo adeguato equo e condivisibile l’obiettivo, almeno come si vorrebbe per le parole dette, ripetute, citate e tirate, senza saper se vere o manipolate per blandire e poi ingannare.

Tutto da ricondurre alla risposta per una sola domanda: questo governo, questa maggioranza, vuole veramente ciò che dice a proposito del lavoro del precariato, oppure mena il can per l’aia per poi allo stato dei fatti tirare la riga in direzione opposta?

Questo è quello che appare dalla lettura degli avvenimenti che per la scuola e per i suoi precari hanno tenuto letteralmente banco sin dai primi giorni di agosto, per esplodere nella prima quindicina di settembre.

Esponenti della maggioranza hanno dichiarato, dopo la brutta figura di aver votato ciò che non avevano letto, per poi confessare con un po’ d’imbarazzo che avevano capito (e lo credo: versione stabilizziamo dai 50mila maestri in su) quello che avevano letto, di aver frainteso cosa dovevano votare. Risultato: cosa c’è sul tavolo? Un po’ di confusione e qualche mascalzonata. Ma andiamo con ordine. Per ovviare al problema dei diplomati magistrali emersi come un iceberg accanto alla salvaguardia del ruolo di oltre 10mila maestre già in ruolo, il maggioritario governo dei selfie ha bandito un concorso riservato (tipico strumento di furbizia italica che non distingue i gialli e i verdi dai bianchi, rossi e blu a partire dalla Prima Repubblica). Un concorso questo che crea una grave discriminazione, perché per i requisiti richiede come percorso di accesso 1) il limite di 24 mesi maturati solo nella scuola statale e quindi con esclusione degli insegnanti delle scuole paritarie, 2) la creazione di classi di punteggio diversificate per titoli di studi con la limitazione ad un massimo di 50 punti per il lavoro svolto e nessuna istanza cautelare per i docenti con conseguente perdita del requisito della conservazione del posto di lavoro a tempo indeterminato.

Bene ha fatto, sulla base delle istanze presentate, la Sesta sezione del Consiglio di Stato a promuovere presso la Consulta la questione di legittimità costituzionale in merito, stante la netta ed insanabile discriminazione che questo strumento crea verso le altre categorie di precari della scuola.

Che insegnamento ne traiamo? Uno solo, tanto per ragionare con il rasoio di Occam. Come non c’è una visione del Paese, non c’è un sistema Paese e non c’è — perché non è pensabile una struttura d’istruzione organica ed al contempo libera e capace di contemperare la ricerca alla libertà, assicurando dignità di ruolo e di vita a coloro che vi lavorano — una struttura in grado di educare, formare, istruire le generazioni che sono il patrimonio non futuro, ma presente del futuro del Paese.

Chi siede in Parlamento e sicuramente ha fatto esperienza di vita nel settore, molto probabilmente ha metabolizzato i difetti sistemici e settoriali, altrimenti non si spiegherebbe come non si possano capire poche semplici tappe o passi che partendo proprio dalla materia attiva dei docenti mettano in moto quel virtuoso meccanismo d’interazione con la materia passiva (i discenti). 

E’ possibile che ci voglia così tanto a capire che una graduatoria unica per le immissioni in ruolo con accesso per tutti gli aventi diritto senza disparità di trattamento tra pubblico e privato, senza sperequazione nella valutazione dei titoli, senza perdita della validità pluriennale, senza frazione di punteggi di servizio, aiuterebbe il quadro concorrendo all’obiettivo finale? Reclutamento della classe docenti dai maestri in su con il doppio canale costituito da una graduatoria di merito concorsuale e da una graduatoria unica per tutti i precari con requisiti certi di abilitazione. Fosse tutto ciò ostico, e rifuggito dai nostri due viceleader che hanno capito che facendo quanto sopra cesserebbe la regalia del superamento dei limiti della legge 107 che stabilizza nella precarietà i precari, ma non li stabilizza nella normalità come prevede la legislazione europea. Legislazione europea? e che scherzate? Non sia mai detto che siano Juncker e la Commissione a produrre lavoro stabile in Italia.