E’ morto da solo nella sua camera da letto, dopo aver seguito le regole della nuova sfida mortale che molti giovanissimi hanno appreso da Internet. Si chiama “blackout game” (il gioco dello svenimento) e sulla Rete si trovano video appositi che spiegano come prendere parte a questa sfida. Nel caso in questione, il 14enne ha preso una delle corde per arrampicarsi (era appassionato di alpinismo e climbing), se l’è stretta sempre di più al collo fino a morire asfissiato. La sfida era questa: togliersi il respiro fino a svenire, per poi riprendere conoscenza provando l’adrenalina di chi si riprende da un attacco cardiaco. Era già accaduto, quella volta il protagonista si era salvato in tempo, anche se non si è più saputo se il cervello aveva subito dei danni essendo rimasto privo di ossigeno. Ne abbiamo parlato con Silvio Cattarina, educatore e responsabile della comunità di recupero tossicodipendenti e persone con problemi mentali, L’Imprevisto.



Igor, il ragazzo trovato morto, era anche appartenente a un gruppo di appassionati di alpinismo e climbing, attività che è già di per sé è una sfida. C’è chi ha scritto che il gioco che lo ha portato alla morte facesse parte di questa passione per la sfida, per l’adrenalina. Che ne pensa?

Non sono d’accordo, non la ritengo una sfida contro se stessi, ma una sfida verso Dio e verso la vita.



In che senso?

Nel cuore di ogni ragazzo c’è una presenza, una domanda, anche un dubbio. Questa domanda verso la vita, su che cosa sarà il mio futuro, il mio destino, è una sfida provocatoria, estrema, è un grido alla vita stessa. E’ una ribellione più che una sfida verso se stessi. Poi si manifesta attraverso modalità come internet e questi cosiddetti giochi bestiali.

Ha parlato di ribellione, una ribellione che deve essere insita in chi inventa questi giochi, e che viene trasmessa, è così?

In ogni ragazzo fin da bambino, soprattutto nei giovani, c’è il ricordo di una grande promessa, lo sguardo è sulla promessa che il nostro cuore sente ma, se su questa promessa nessuno dice niente e aiuta a spiegarla, tu ti arrangi. Non è vero che ci si arrabbia o ci si rivolta contro la società, il lavoro, i genitori. Sono problemi ma non sono così determinanti come certa psicologia ci ha abituati a pensare.



Casi come questo cosa determinano?

Il veder scomparire dal cuore la promessa perché a un certo punto ci accorgiamo che nessuno la raccoglie.

I genitori di Igor hanno diffuso un appello agli altri genitori: “Fate il possibile per far capire ai vostri figli che possono sempre parlare con voi”. L’età di Igor però è quella in cui naturalmente il figlio comincia a staccarsi dai genitori, cosa impedisce che il distacco non sia devastante?

Si riesce a parlare tra due persone o un in una famiglia se tra le persone c’è una grande cosa, se si è davanti a un dono, un avvenimento, se no non si parla. Non bastano i genitori, non basta la morosa o il moroso, bisogna che ci sia una comunità, condizione essenziale per lo sviluppo della identità personale. La famiglia è il luogo degli affetti ma non è solo questo. Se in mezzo alle persone non c’è il senso di un dono, tu non parli. L’appello di questi genitori è molto nobile, eroico, però anche inutile se non c’è una grande cosa che ci lega.

Si rischia di finire nel contrasto, nella proibizione, ci deve essere libertà e rispetto reciproco: è così?

La vita deve essere una grande avventura, allora si parla e si chiede. Ma se la vita non è questa uno si chiude sempre di più nel rancore verso la vita stessa.

 

(Paolo Vites)