Nel 1992, in occasione dell’uscita del primo, smilzo volume di “Uno sguardo sull’educazione”, la raccolta di indicatori sull’istruzione messa a punto dall’Oecd, usciva anche un testo che ne spiegava le ragioni. L’introduzione di Walberg e Bottani, a buon diritto considerato il padre dei test comparativi su larga scala, si intitola “A che cosa servono gli indicatori internazionali sull’istruzione?”. Venticinque anni dopo, in Italia ci stiamo ancora ponendo la stessa domanda, a cui cercherò di dare qualche risposta commentando i dati riferiti all’Italia, anche se un discorso valido richiederebbe molto tempo e una serie di comparazioni per mostrare sia i nostri miglioramenti assoluti, sia quelli nel confronto con gli altri paesi. 



Gli indicatori internazionali, si afferma, pur nell’inevitabile schematismo, costituiscono la base per una valutazione il cui obiettivo “non è di stilare una classifica, ma di permettere ai decisori di ogni paese di capire meglio i fattori che influenzano la qualità dell’insegnamento, dando loro la possibilità di mettere a punto un numero maggiore di opzioni politiche“. L’ampliamento dell’indagine (il volume del 2018 comprende 462 pagine articolate in quattro capitoli: risultati e conseguenze dell’istruzione; accesso, partecipazione e esiti; risorse finanziarie; insegnanti e organizzazione) testimonia del suo successo, ma la lettura di alcuni dei dati riferiti all’Italia fa sospettare che la “messa a punto di opzioni politiche” per migliorare la qualità sia stata largamente deficitaria. 



Seguendo la traccia della presentazione fatta a Roma, si può partire dall’equità, per notare che la scuola italiana continua a esercitare una selezione nei confronti dei bambini con uno status socioeconomico più basso. In linea generale, la ricerca educativa ha messo in luce l’importanza dei primissimi anni di età. Già a 18 mesi “i bambini che appartengono a diversi gruppi socio-economici presentano delle differenze ampie nel lessico… con un divario complessivo di circa 30 milioni di parole ascoltate (!!!) all’età di tre anni … I bambini all’ingresso a scuola non sono tutti uguali, in termini di preparazione di base. E la diversità viene alimentata anche durante l’esperienza scolastica” (prendo questi dati da un articolo di Asquini e Sabella su Scuola Democratica: normalmente non si fanno citazioni negli articoli per i quotidiani, ma questo testo è pieno di dati interessanti, e ne suggerisco la lettura agli insegnanti che stessero eventualmente leggendo questo mio articolo). Il rapporto Oecd mostra che la quota di bambini da 0 a 3 anni che frequentano istituzioni di educazione e cura per la prima infanzia è in Italia più basso della media Oecd (un bambino su quattro contro uno su tre) ma soprattutto che i bambini con origine sociale svantaggiata sono esattamente la metà dei loro coetanei più fortunati (16 contro 32). Questo è anche dovuto al fatto che molti asili nido, soprattutto al Sud, richiedono il pagamento di una retta: dato che conferma l’utilità della scelta fatta da alcuni comuni di fare accordi con i nidi privati, soluzione meno costosa dell’aprirne di nuovi, che consente la fruizione a un maggior numero di bambini che non possono pagare. 



Colpisce il peso dell’istruzione dei genitori non solo sulla riuscita, ma sulle scelte e le carriere dei figli: nel 2012 solo il 19% degli adulti (classe di età 25-64) aveva conseguito un titolo di studio superiore a quello dei genitori, contro un valore medio di 37%, e solo il 9% dei laureati aveva genitori non diplomati, mentre il valore medio è 21%. Per i più giovani la situazione è migliorata, ma la mobilità intergenerazionale resta bassa nonostante l’aumento percentuale dei laureati nella classe di età 25-34. Quanto al genere, a tutti i livelli, i tassi di partecipazione e riuscita delle ragazze sono superiori: sono laureati il 20% degli uomini e il 33% delle donne, contro valori medi rispettivamente di 38% e 50%: come si vede, la differenza è uguale, ma i valori assoluti molto più bassi. Se guardiamo le quote dei giovani Neet, che non lavorano e non studiano, emerge il valore di protezione del titolo di studio per le ragazze: in media, sono il 31% dei  maschi e il 29% delle donne per la fascia 20-24 anni, il 28% e il 40% per la fascia 25-29 anni, con un valore medio di 34% (il quinto più alto dei paesi Oecd), ma se guardiamo il tasso di inattività (i Neet che non cercano neppure lavoro), la differenza fra i generi decresce al crescere del titolo di studio, e passa da 33 punti per chi non ha titoli, a 19 per le diplomate, a 2 per le laureate. Le retribuzioni medie sono inferiori per le donne, e il dato coincide con quello medio Oecd, circa il 75% per donne senza titolo o con il diploma, per cui  non si segnala un particolare svantaggio di genere. 

Colpisce invece che le laureate siano pagate mediamente poco più del 60% dei maschi; non si tratta solo di una maggiore selettività nei confronti delle donne, ma anche, io credo, della quota di laureate che insegnano, rispetto ai maschi, professione che, ci dice il Rapporto, viene retribuita al 70% rispetto a persone in possesso dello stesso titolo di studio. In Italia, la quota media di docenti donne è del 78%, un po’ superiore sia alla media europea (74) che a quella dei paesi Oecd (72). Sempre in riferimento al genere, le ragazze hanno un livello di partecipazione molto più basso dei ragazzi nella partecipazione all’istruzione tecnica e professionale, che consente un passaggio al lavoro in tempi più brevi: le ragazze con titolo umanistico o generale sono il 62%, e la differenza di diplomati tecnici e professionali è di -39% dai maschi. 

Per i dati che illustrano il passaggio al mercato del lavoro, i valori medi sono poco significativi, mentre lo sono i dati regionali: le differenze fra regioni sono quasi pari a quelle fra i diversi Paesi Oecd! Per la partecipazione della classe 20-29 ad attività di formazione, la prima regione del Sud, la Campania, è al dodicesimo posto. Ci sono anche dati apparentemente contraddittori, come la Valle d’Aosta e Bolzano agli ultimi due posti, ma il fatto che le stesse due zone siano ai primi posti nel tasso di occupazione dei diplomati ci dice che non sono nel sistema formativo perché hanno già trovato lavoro. La gran parte delle regioni del Sud e le Isole, invece, sono agli ultimi posti sia per la formazione che per l’occupazione, e infatti sono quelle in cui troviamo il maggior numero di Neet. Il divario è sensibilissimo: nella classe 25-34 i laureati occupati sono in Lombardia circa l’80%, in Calabria e Sicilia più o meno la metà. I tassi di occupazione dei giovani laureati, già bassi, sono calati di una decina di punti negli ultimi dieci anni, e sono intorno al 65%, valore superiore solo all’Arabia Saudita… Sembra paradossale che in tutti i paesi tranne tre (appunto, l’Italia, l’Arabia Saudita e la Repubblica Ceca) il tasso di occupazione dei laureati giovani sia inferiore a quello della fascia 55-64, ma esiste una spiegazione strutturale di questa disparità, ed è che in quella classe di età in valore assoluto i laureati erano molto meno che nella classe più giovane, e quindi non è difficile raggiungere una percentuale più alta: inoltre, i più vecchi hanno già scontato i tempi di attesa del primo lavoro.

Ci sono alcune considerazioni interessanti, anche se non nuove, sul lavoro degli immigrati. Se in linea di massima le probabilità di trovare lavoro sono più elevate per gli adulti autoctoni, che sono anche pagati di più, i posti disponibili per lavoratori a basso livello di istruzione sono occupati soprattutto da stranieri: la condizione in cui è più difficile trovare un lavoro è quella di chi è arrivato con un titolo di studio conseguito in patria. Il fatto che i laureati stranieri siano pagati il 44% in meno induce a pensare che molti di loro si adattino a fare un lavoro per cui sarebbero sovraqualificati, che è più facile da trovare e per cui la differenza di retribuzione fra italiani e stranieri è minore (12%). Non solo in Italia arrivano immigrati poco qualificati, ma in qualche misura il paese “spreca” il capitale umano dei migranti con elevato titolo di studio.  

Sugli insegnanti e l’organizzazione scolastica, nulla di nuovo, anche se non vale il detto “nessuna nuova, buona nuova”: la spesa per l’istruzione è cresciuta, ma solo per tornare ai livelli del 2010, e resta inferiore a quella media dei paesi Oecd, di pochissimo per l’istruzione primaria (99%) e secondaria di primo grado (95%), di più nella secondaria di secondo grado (89%) e soprattutto nell’università, 73% se si include anche la spesa per ricerca e sviluppo. I dati sul corpo docente non tengono conto delle massicce immissioni degli ultimi due anni, ma resta il fatto che l’età media era altissima, con un 58% dei docenti che aveva almeno cinquant’anni. La maggioranza di donne è costante, dal 99% nella scuola pre-primaria al 63% della scuola secondaria di secondo grado: le donne sono in minoranza nell’università, ma nelle generazioni più giovani c’è un maggior equilibrio di genere. Le retribuzioni sono diminuite costantemente in termini reali fra il 2010 e il 2016, e sono inferiori alla media Oecd sia per i livelli iniziali che nel corso della carriera. La retribuzione andrebbe rapportata al carico di lavoro (numero di studenti per classi, rapporto insegnanti/alunni, ore di presenza in scuola), ma lo svantaggio resta. Non si tiene ovviamente conto dei recenti aumenti contrattuali. Considero negativo non tanto l’ammontare della retribuzione in sé, quanto il fatto che non sia previsto nessun tipo di incremento che non sia legato all’anzianità: i timidi tentativi di introdurre meccanismi di merito sono stati in pratica annullati.