“Vinci il concorso e diventi insegnante, punto. Non servono brevetti, titoli, percorsi per dire posso ambire al posto”. Su Repubblica di giovedì il ministro Bussetti ha abbozzato le linee della sua riforma del reclutamento dei docenti. Stimo Bussetti e ne apprezzo le qualità umane e professionali, per questo speravo che la passione per la scuola gli avrebbe consigliato di non sottoporre il sistema a un ulteriore stravolgimento. Non servono altri “brevetti”, ha detto, basta la laurea e a quel punto se vuoi diventare insegnante “ci provi e se non ci riesci proverai la volta dopo”. E magari se nel frattempo vinci il concorso da bibliotecario del tuo Comune o si libera un posto all’Inps prendi quello, perché forse ti pagano un po’ meno, ma almeno stacchi alle 16.30 e basta pensieri… 



Un insegnante, un professionista di un settore delicatissimo, equiparato a qualsiasi impiego nella pubblica amministrazione. Per coerenza dovrebbero proporre di spostare le competenze sul personale docente alla ministra Bongiorno, ai suoi tornelli e impronte digitali contro i fannulloni.

Com’erano la formazione iniziale e la selezione dal 2000 al 2017? Sulla carta un meccanismo sensato: ti laurei, ti specializzi, fai il concorso. Per insegnare non basta conoscere la geografia, ma si deve anche saperla insegnare. Ma passando dalla teoria alla pratica ci si è resi conto che le le controindicazioni di questo principio sacrosanto erano pesanti. I laureati dovevano pagare per abilitarsi e gli abilitati pensavano di avere diritto al posto; peraltro non senza ragioni, visto che non solo pagavano, non solo accedevano a Ssis o Tfa dopo una selezione, ma venivano anche chiamati per fare le supplenze. Quanto tempo passava tra un ciclo Tfa e un altro? Quanto tra un concorso e il successivo? Come coprire i posti tra un concorso e l’altro? Con i precari, che a quel punto giustamente rivendicano di essere stabilizzati ope legis… E avanti così all’infinito.



Abbiamo scelto quindi di intervenire. Come? Con una serie di misure coordinate e coerenti nella scelta di legare indissolubilmente formazione e accesso al ruolo, che con i Tfa “provvisori” erano stati inopinatamente separati. Concretamente, si è intervenuti spostando la specializzazione a dopo il concorso e retribuendola. Ma anche facendo concorsi a scadenza certa (dopo più di dieci anni di nulla, la stagione del centrosinistra ha portato tre concorsi in sei anni), sancendo per legge l’obbligo di assumere su tutti i posti vacanti e disponibili ed esaurendo un numero rilevante di graduatorie della secondaria. E abbiamo anche tenuto conto delle criticità dell’amministrazione, che dava anch’essa purtroppo il proprio “contributo” (involontario: c’è una carenza di personale che a descriverla non ci credereste) a ingarbugliare la matassa. Il Miur non è mai riuscito a programmare correttamente il fabbisogno (sappiamo quanti posti servono in Italia, ma non quanti ne servono in Sicilia e quanti in Lombardia) e a rispettare la periodicità dei concorsi. 



Da qui la necessità di costruire un sistema che obblighi da un lato a pianificare e dall’altro a rispettare la periodicità. E per consentire di “correggere” eventuali variazioni di fabbisogno senza “ingolfare” il meccanismo né causare le precondizioni per nuovo precariato, ci siamo “inventati” una cadenza biennale a fronte di un percorso triennale. Non nego gli errori fatti, anzi (errare è umano e noi tutti lo siamo; anche quelli che ci sono adesso ne stanno facendo), ma il prezzo che Renzi ha pagato sulla scuola ha ragioni più profonde: abbiamo scardinato un sistema inefficiente e inefficace, quello delle graduatorie, e a chi su questo lucrava (consenso, parcelle, tessere o potere) la cosa non deve essere piaciuta.

Arriviamo ad oggi. Come cambierebbero la formazione iniziale e la selezione con il modello proposto? Tanto per cominciare, risolvono il problema annoso di come connettere formazione e accesso al ruolo… abolendo la formazione. Detta così fa un po’ paura, vero? Dopo il concorso non si dovrà più superare il Fit, ma si inizierà subito ad insegnare, senza alcuna preparazione specifica e senza alcuna verifica sul campo. Ma cosa si vuole cancellare, esattamente? Nel Fit, tra le altre cose, l’aspirante docente riceve una formazione di livello universitario sulle competenze complementari a quelle disciplinari, fa tirocinio attivo e passivo, viene osservato in situazione (mentre insegna, mentre fa un collegio docenti, mentre riceve i genitori…) e solo alla fine di questo percorso viene giudicato idoneo o meno all’insegnamento. Un percorso, lo ripeto, che è retribuito. E siccome a pensare male si fa peccato, ma ci si azzecca, mi viene il dubbio che facciano tutto questo solo per una ragione: prendere i soldi destinati ai tirocinanti per distribuirli a pioggia tra i docenti di ruolo, nella migliore delle ipotesi. Nella peggiore, per scipparli alla scuola.

“Vinci il concorso e diventi insegnante, punto”. L’ho letto e mi sono chiesto “che senso ha?”. Solo per prendersi i soldi? Torna, sulla scuola, una politica di corto respiro, fatta di distribuzione di contentini, che ci riporta indietro di vent’anni almeno. È la cultura di chi rimpiange il predellino, le discipline e la disciplina, le nozioni; di chi vuole una scuola fatta solo di compiti a casa, interrogazioni, orario delle lezioni, classe. Era e rischia di tornare ad essere una scuola con docenti ridotti a impiegati formati male, selezionati peggio e che considerano l’aggiornamento una seccatura. Una scuola incapace di cambiare se stessa e con se stessa i suoi studenti e con i suoi studenti il destino di un’Italia in declino. 

Tutte le riforme della formazione iniziale precedenti (le più e le meno condivisibili) avevano in comune una domanda, che definirei di senso: a cosa serve la scuola? Com’è cambiata la funzione del sistema educativo? Come deve di conseguenza cambiare anche la figura del docente? In una “riforma” come quella annunciata, che prende quello che c’è e si limita a cancellare la parte qualitativamente innovativa, io non vedo niente di tutto questo. Faranno qualcosa di molto simile (abrogare la formazione/selezione sul campo) anche per il concorso per dirigenti scolastici, ma lì almeno c’è il problema dei tempi da accorciare. 

Ed è questo vuoto di senso, questa — letteralmente — insensatezza a preoccuparmi. Da padre, innanzi tutto. La mia figlia più piccola e le sue coetanee — inconsapevoli — non possono lanciare un grido d’allarme per la qualità della scuola che sarà, potranno solo pagarne a caro prezzo le conseguenze. Non c’è proprio nessuno che vuole parlare in loro nome?