“Educare è un atto di speranza”. Lo affermava quattro anni fa papa Francesco incontrando trecentomila ragazzi in piazza San Pietro e lo ricorda il rettore della Liuc-Università Cattaneo di Castellanza, Federico Visconti, nella postfazione a Scuola Università Impresa. Ripensare le opportunità educative appena uscito per Università Cattaneo Libri. Affermazione impegnativa con cui gli insegnanti (non solo di professione, per la verità) dovrebbero fare i conti all’alba di un nuovo anno scolastico.
A patto d’intendersi sul termine “speranza”. Visconti riporta l’amara riflessione del poeta greco Esiodo, VI secolo avanti Cristo: “Non nutro più alcuna speranza per il futuro del nostro popolo, se deve dipendere dalla gioventù superficiale di oggi, perché questa gioventù è senza dubbio insopportabile, irriguardosa e saputa”. Ne conseguenze che il rettore si chiede cosa potrebbe essere cambiato da allora, al di là o forse proprio come conseguenza del contesto sociale — inteso nel senso più ampio — nel quale ci troviamo. Cosa in particolare è cambiato nella scuola italiana cui il volume, ricco di contributi accademici e non, affida ancora un ruolo educativo essenziale per costruire l’identità dei giovani.
Lorella Carimali, insegnante di matematica e fisica nel Liceo scientifico Vittorio Veneto di Milano, parla di “crescente analfabetismo funzionale” e di un adolescente-tipo che “non capisce per cosa valga la pena lottare e, prima ancora, se valga la pena lottare e sacrificarsi”; ma aggiunge: “i giovani apprendono più dai valori che testimoniamo che da quello che diciamo: non importa cosa il maestro dice, ma cosa il maestro è”. Michele Puglisi, responsabile del Centro che coordina la collaborazione tra università lombarda e sistema scolastico, assicura che “si può comprensibilmente giungere a posizioni di grave, profondo pessimismo sulla condizione dei nostri sistemi educativi” e cita in proposito l’intervento di Angelo Panebianco nell’editoriale per il Corriere del 24 gennaio scorso: “Bisogna chiedersi se il nostro sistema educativo non sia diventato, per una parte non piccola, un sistema (dis)educativo, un sistema che produce ignoranza anziché istruzione, incultura anziché cultura”. Da qui la posizione, decisamente controcorrente, di Patrizia Castellucci e Luciano Traquandi, psicologa la prima e consulente d’impresa il secondo: “Ogni formazione professionale ha bisogno di fondamenti e corpi teorici imprescindibili: ci piacerebbe aggiungere l’italiano nelle sue forme più raffinate e auliche, persino classiche, visto che è una caratteristica peculiare e una risorsa nel nostro Paese”; fra le vie per la formazione della persona vi è “lo sviluppo della dimensione artistica ed espressiva, del senso del bello, della produzione estetica”; conclusione: tra i “fondamentali” di ogni percorso di studio “vi è l’italiano: lessico, grammatica, sintassi, persino la letteratura classica, hanno una straordinaria forza fondante e forse ci rendono unici al mondo. Il made in Italy è fatto più di cultura che di tecnica”.
Ovvio? Niente affatto se è vero che, secondo un’indagine condotta da Laura Ballestra per la Liuc, “il 51 per cento degli studenti intervistati non ha letto di sua scelta alcun libro di saggistica durante i 5 anni delle scuole superiori”. Fondamentale che un ateneo fra i più prestigiosi del nostro Paese si interroghi sulla continuità dei percorsi educativi, sull’innovazione didattica, “sulla corrispondenza tra le richieste delle aziende e i profili in uscita dei laureati”, così da “provocare — conclude il rettore — il confronto su un tema sensibile, che interessa una pluralità di attori”.
Peccato che a non mostrare interesse sia proprio una scuola tesa ad esaltare tecnologie, prassi burocratiche, processi di medicalizzazione (vedi il profluvio di certificati Bes, Dsa e simili). “Pare più concentrata a valutare le competenze degli alunni piuttosto che a favorire i processi cognitivi delle future generazioni” ha scritto di recente su Avvenire lo scrittore Eraldo Affinati. Dunque torniamo all’inizio: cosa è cambiato nella scuola? Proviamo una risposta semplice: fino a ieri si andava a scuola per “farsi una cultura” da spendere poi nella vita. Oggi solo per “fare”. E da spendere rimane “solo” la speranza di cui parla papa Francesco.