Adesso torneremo a far domande, a interrogare. Dai test d’ingresso in poi, chissà quanti miliardi di quesiti, nelle classi italiane, voleranno nell’aria, chissà quante parole e definizioni e date vorremo sapere dai nostri alunni. Aspetteremo risposte, possibilmente giuste, per verificare competenze, per raggiungere obiettivi, perché certe cose non si può non conoscerle. Però, però… faremo domande di cui sappiamo già la risposta. E qui comincia la tragedia. Non saranno vere domande: vorremo sentirci ripetere quel che già sappiamo. “Io lo so, voi non lo sapete, quindi ora io lo dico a voi, così poi voi lo ridite a me”: logica aberrante, Sisifo che spinge e rispinge in eterno il suo macigno. Investigazioni, il cui brivido estremo sarà sentir ripetere noi stessi – c’è chi pretende i suoi appunti, le sue parole, il suo libro – o cogliere in castagna chi non riesce a ripetere noi stessi (due studenti, peraltro, cugini nella mediocrità: “tu vuoi sentirti dire questo, e io te lo dico”; un bravo e un cattivo ripetitore, ma pur sempre due ripetitori depensanti). 



È la “generale riduzione dell’apprendimento al plagio”, come scrive Massimo Recalcati: “nessuna eterogeneità, nessuna divergenza. Se in una verifica orale o scritta – quando non si riduca a una serie di caselline vuote da barrare – l’insegnante ritrova le proprie parole o quelle dei testi studiati; se, in altri termini, l’allievo sa ripetere il più esattamente possibile il sapere che gli è stato impartito, allora la valutazione sarà massima”. 



Noi cominceremo a spiegare e gli studenti dovrebbero ridircelo, il nostro Leopardi coi suoi (o meglio nostri) pessimismi, e la nostra età augustea con il nostro mecenatismo, e insomma tutti i nostri bla bla bla. Ma non vorremo sapere altro se non quello che sappiamo già, che è poi il contrario delle domande.

Nel 1971 Heinz von Foerster ha chiarito (e Guido Armellini prova da anni a comunicarlo a tanti insegnanti) che per affrontare la complessità del mondo noi indirizziamo i nostri sforzi verso “un unico scopo, quello di creare macchine banali o, se ci imbattiamo in macchine non-banali, di trasformarli in macchine banali”. Ed è giusto così: “una macchina banale è caratterizzata da una relazione uno-a-uno tra il suo ‘input’ (stimolo, causa) e il suo ‘output’ (risposta, effetto)”. Perfetto, appunto, per un computer o una lavatrice: io ti chiedo a, tu devi darmi a



“La banalizzazione diviene una panacea pericolosa quando l’uomo l’applica a se stesso. Si consideri, per esempio, il modo in cui funziona il nostro sistema educativo. Al momento in cui uno studente fa il suo ingresso nel sistema scolastico, egli è una imprevedibile ‘macchina non-banale’. Non sappiamo quale risposta darà a una certa domanda. Se però alla fine ottiene i risultati che il sistema si aspetta da lui, le risposte che darà alle nostre domande dovranno essere note in anticipo.

D: “Quando nacque Napoleone?”
R: “Nel 1769”.
Giusto!
Studente > Studente.

D: “Quando nacque Napoleone?”
R: “Sette anni prima della Dichiarazione d’Indipendenza”.
Sbagliato!
Studente > Non-studente. 

I test scolastici sono un mezzo per misurare il grado di banalizzazione. Se lo studente ottiene il punteggio massimo, ciò è segno di una perfetta banalizzazione: lo studente è completamente prevedibile, e quindi può essere ammesso nella società. Non sarà fonte di sorprese, né di problemi.

Definirò ‘domanda illegittima’ quella domanda di cui si conosca già la risposta. Non sarebbe affascinante immaginare un sistema di istruzione che chieda agli studenti di rispondere solo a ‘domande legittime’, cioè a domande le cui risposte siano ignote?”

Ti chiedo di parlarmi di questa poesia perché spero di sorprendermi per quello che riesci a vederci tu, e che nessun altro prima di te ha mai visto: io non sono uno che sa già, te lo giuro, e per questo ti faccio domande. Se sbagli, non sarà perché dici una cosa diversa dalla mia, ma perché non sei leale con i dati testuali di questa poesia. Fammi capire questa pagina inesauribile, salvami dalla ripetizione che esaurisce, e anziché (b)analizzare un testo, iniziamo a cercare quello che ancora non sappiamo. “Non vorrei che tu dicessi quello che so, ma quello che non so dire”, come canta Niccolò Fabi in una canzone intitolata Essere speciale, che sarebbe il contrario di una “macchina banale”. Vorrei che tu, mio alunno, non diventassi il mio clone, “che tu non diventi lo specchio fedele di ogni mia banalità, ma dandomi un vetro che sia trasparente mi aiuti ogni giorno a uscire dal niente”.

Mentre comincia un anno scolastico, è vertiginoso ripensare a quante cose abbiamo imparato solo grazie ai nostri alunni, e a quante stiamo per imparare. Si annoiano solo gli insegnanti che, mentre insegnano, non imparano: riciclano loro stessi, vogliono replicanti (di parole, di concetti, di mappe o pappe concettuali, di tesine, e, alla fine, di stupidità). Ma questa pagina è terra incognita, e noi che leggiamo siamo gli avventurieri.

Immagino le obiezioni: se poni domande di cui non sai la risposta, poi come si fa a mettere il voto? Domanda legittima. Intanto preoccupiamoci quando ascoltiamo o leggiamo una frase già detta da noi o scritta dal libro, perché “la condizione necessaria” della scuola – deduce ancora von Foerster in Sistemi che osservano – è percepirci “reciprocamente come esseri autonomi, non-banali”: abbiamo così tanta paura, in classe e fuori, di guardarci come esseri speciali?