C’è dibattito sulla formazione iniziale e sul reclutamento degli insegnanti della scuola secondaria. Non è da oggi. Mi permetto comunque di intervenire a partire da due semplici considerazioni, sulle quali sarebbe utile tutti riflettere e magari convenire prima di ampliare e approfondire un tema che va affrontato con accortezza ma anche con coraggio.
La prima riguarda l’irragionevolezza di un sistema di formazione iniziale dei docenti che strutturalmente, nella migliore delle ipotesi – laddove dovesse essere attuata una norma che esiste (cosiddetta “Buona Scuola”), ma non è ancora operativa – non permette l’ingresso in ruolo in una cattedra statale prima dei 30 anni. Che lo ricordi anche il ministro (Corriere della Sera del 31 agosto scorso) più per giustificare il “cul de sac” in cui la giurisprudenza amministrativa ha cacciato la politica, piuttosto che per annunciare un deciso cambio di passo legislativo, non modifica il fatto che oggi si entra di ruolo anche dopo i 43 anni e dopo le ultime immissioni decise dallo stesso ministro del governo attuale talvolta addirittura oltre i 53 anni!
La seconda questione riguarda la formazione. Semplificando le posizioni fin qui emerse su questo giornale si potrebbe così riassumere: il ministro Bussetti, premuto dal Consiglio di Stato, vuole che dopo la laurea ci sia il concorso: che diamine, tutta la legislazione precedente è da buttare; il Pd difende invece ovviamente quanto previsto dalla legge 107/2015 D.Lgs 59/2017; in mezzo quanti vogliono restituire la formazione e il reclutamento all’autonomia delle istituzioni scolastiche e alla libera volontà contrattuale dei singoli docenti. Viste le diversità di opinioni e opzioni, anche sul tema della formazione (iniziale ma poi in servizio) occorre trovare un minimo comune denominatore, che può essere così brevemente descritto: nell’epoca del life long learning, non solo ci si dovrà formare sempre più anche dopo la laurea, ma anche durante lo stesso percorso di studi universitari gli studenti dovrebbero essere aiutati ad unire, almeno nel biennio specialistico o magistrale, teoria e pratica, studio e prime esperienze professionali sul campo, quanto meno in un’ottica orientativa e di contatto con la vita “reale” (come proponeva già la legge 53/2003). Quindi di una formazione c’è e ci sarà sempre bisogno, in particolare per insegnanti che non volessero limitarsi ad essere meri “impiegati” di un ufficio periferico del ministero dell’Istruzione.
Ciò detto, a fronte di una questione che si trascina (e si aggroviglia sempre di più?) da decenni, nessuno ha la ricetta pronta e sicura da offrire. Certo è che uno schietto giudizio sul recente passato potrebbe aiutare, visto che il primo dei tre concorsi promossi dalla 107 è già sotto il vaglio della giurisprudenza amministrativa e costituzionale (si veda il numero di Nuova Secondaria di ottobre per un approfondimento): è legittimo un concorso che preveda come requisito d’accesso l’abilitazione, se quest’ultima è considerata dal Consiglio di Stato un “criterio sostanzialmente casuale”? E ancora, il dottorato equivale o no all’abilitazione? Tutte questioni che sono rimandate alla decisione della Corte Costituzionale e che, inevitabilmente, gettano un’ombra di incertezza anche sulle future procedure concorsuali per la scuola.
Dentro questo marasma, forse è opportuno fermarsi un attimo e guardarsi attorno, dove quello che qualcuno auspica (per esempio la proposta di Persico di scegliere i docenti da parte delle singole istituzioni scolastiche) è già realtà. È questo il tentativo che ho fatto in un recente saggio (La sfida del “caso” Inghilterra. Formazione iniziale e reclutamento dei docenti, Studium 2018) appena pubblicato che, pur non riguardando direttamente il nostro Paese, offre la traiettoria di un diverso paradigma, in un’ottica di pedagogia comparata.
Tra gli aspetti più interessanti del sistema inglese la pluriformità dei percorsi di accesso all’insegnamento, il rapporto tra teoria e pratica, le forme di collaborazione tra istituzioni scolastiche e università. Questi e altri elementi contribuiscono a formare un modello profondamente distante da quello attualmente vigente (nonché da quello in fase di attuazione) in Italia, ancora troppo centralizzato, uniforme, che prevede percorsi di formazione iniziale per gli insegnanti (soprattutto per quelli secondari) lunghi, costosi e incerti, dove teoria e pratica faticano ancora a parlarsi, dove scuola e università rimangono distanti e reciprocamente diffidenti.
Allora perché non iniziare guardando come si risolvono in casa d’altri gli stessi problemi quantitativi e qualitativi? Il caso inglese fornisce numerosi motivi di interesse, per non ripetere errori del passato e affrontare al meglio le sfide di oggi e di domani.