La critica alla proposta di abolire il tirocinio per accedere alla professione docente ha innestato un dibattito interessante, che mi consente di dire la mia anche sulla pars construens, proprio partendo dagli articoli di Foschi, Persico e Magni.
Dice Foschi che abolire l’abilitazione va bene e che questa andrebbe sostituita con un tirocinio libero da appesantimenti burocratici, lasciando al docente la scelta di capire se l’insegnamento fa per lui o meno. E fin qui concordo, purché il ruolo dello Stato nella selezione non sia solo formale, come per troppi è avvenuto fin qui (sanatorie, ope legis, anni di prova ridotti a mera formalità…). Non capisco invece perché — se l’obiettivo è dare centralità al tirocinio — Foschi parli del 59/2017 come di una “giungla”. Abolire l’abilitazione è esattamente quanto fa il decreto, altro che giungla! E il ministro non può abolirla semplicemente perché è già stata abolita. Al massimo può ripristinarla, cedendo alle richieste dei precari storici non abilitati che non vogliono fare il concorso. La critica che in molti abbiamo avanzato è quindi proprio all’abolizione del tirocinio, e non solo dei 24 crediti, come sostiene Foschi.
Un punto molto importante, dicevo, è come lo Stato garantisce che il percorso di selezione e formazione iniziale del docente non sia una mera formalità. Una possibile risposta è nell’articolo di Persico: la scuola statale è un pezzo di Stato, non potremmo valutare gli aspiranti docenti attraverso docenti senior e Ds? A me l’idea non dispiace, anche perché dare centralità alla scuola è fondamentale dato che consente di legare selezione e formazione non solo tra loro, ma anche all’offerta formativa della singola scuola, cosa che nell’impianto della 107 avveniva solo indirettamente e in modo troppo burocratico, con l’individuazione per competenze. In cosa differisce il concorso di scuola proposto da Persico dal decreto 59? Essenzialmente nel fatto che la selezione avviene solo sul campo e non anche prima del tirocinio, con il concorso “nazionale”. Si può abolire il concorso prima del percorso? Si può lasciare tutto l’onere di valutare (anche in termini di sforzo amministrativo) alle scuole? Basta avere consapevolezza delle possibili reazioni e delle conseguenze pratiche. Reazioni, che però non sarebbero artificiosamente prodotte dalle pulsioni sindacali più deteriori evocate da Persico: esse farebbero breccia in un certo conservatorismo (anche “sano”) della classe docente, del quale è bene prendere atto, senza fornire sempre l’alibi dei sindacati “brutti e cattivi”. Cercherei piuttosto alleanze nei corpi intermedi più attenti alla necessità di non arretrare sui temi della qualità e della valorizzazione della professionalità docente, che in un’ottica riformista simul stabunt, simul cadent. E poi ci sono le possibili criticità sul piano pratico, due su tutte: cosa succede della cattedra bandita (che sarà quella del professionale di periferia più che del prestigioso liceo classico del centro storico) se il concorso di scuola va deserto? Come si gestiscono i trasferimenti?
Anche per me in linea teorica sarebbe preferibile la soluzione “radicale”, ma in concreto? E soprattutto, non si può raggiungere lo stesso obiettivo per altra via? Parliamone, ma con pragmatismo e senza innamorarci di modelli astratti. Personalmente considero il combinato disposto di legge 107 (con la sua tanto vituperata individuazione per competenze) e decreto 59 (con il suo Fit, dove il ruolo della scuola aumenta progressivamente) una soluzione per certi versi migliore e per altri migliorabile della “storica” proposta di concorso di scuola. Migliorabile per le ragioni che dirò più avanti, migliore per due motivi: 1) arriva dopo un lungo approfondimento e quindi tiene conto di molte possibili difficoltà di implementazione; 2) non è percepita come “ideologica” e quindi può raccogliere più consensi trasversali.
Sempre nell’ottica di un riformismo radicale, ma pragmatico, in questa fase suggerisco però di focalizzare su ciò che ci unisce, ovvero l’esigenza di dare maggiore centralità alla scuola, non solo nel percorso di formazione e tirocinio, ma anche nel percorso di selezione. Nel percorso di formazione il ruolo della scuola può ulteriormente aumentare, ma il nesso con l’università è fondamentale: ci aiuta l’approccio di Magni, che non solo colloca la formazione iniziale e in servizio nel contesto giusto (potenziamento del percorso universitario, lifelong learning, insegnamento come professione ecc.), ma ben si sposa — aggiungo — anche con il necessario sviluppo delle successive carriere (il plurale non è un refuso) per i docenti. Anche sulla centralità della scuola nel processo di selezione si possono fare passi avanti significativi, ad esempio vincolando il docente a restare (e dunque la scuola a “tenerselo”) alcuni anni — un ciclo o due, 5 o 6 anni — nella scuola dove è stato selezionato. In altri termini, dopo aver legato la formazione iniziale alla selezione, leghiamo la selezione alla scuola di titolarità, con una individuazione per competenze “sburocratizzata”, anche perché posta all’interno del percorso di selezione e formazione di ogni singola scuola.
In conclusione, allo “schietto giudizio sul recente passato” va affiancato quello su cosa si prepara per il futuro. E quindi tradursi nella presa d’atto che il 59/2017 è un passo avanti nella direzione che tutti auspichiamo e che invece sta riguadagnando terreno chi vuole tornare indietro, imbarcare un po’ di precari senza vagliarne la qualità, mortificare le scuole e gli insegnanti (relegati in un ruolo impiegatizio) e difendere lo statalismo esasperato. Non siamo all’anno zero, anche se si poteva fare di più (ed è questo, in generale, il giudizio che dò dell’esperienza di governo del Pd renziano), ma abbiamo peccato più in omissioni che in opere, di questo sono certo. Ai governi Renzi e Gentiloni non è mancata la volontà di inserire elementi di innovazione anche radicale. È mancata invece — complici anche i tempi lunghi per l’esercizio della delega — la forza di rivendicare il quadro di insieme, di far emergere la figura che si delineava mettendo insieme tutte le tessere del mosaico.
Partirei da qui, piuttosto che dall’ossessione di disfare la tela altrui, anche perché il ruolo di Penelope è faticoso e poco utile se — come in questo caso — non ci sono né i Proci nel Palazzo, né un Ulisse disperso da qualche parte del quale aspettare il ritorno, ma solo la qualità della scuola e dei futuri docenti da mettere al riparo da un nemico comune chiamato statalismo.