Periodicamente si fa strada, e da ultimo con una proposta di legge di iniziativa popolare presentata dall’Anci, l’idea di introdurre nelle scuole “di ogni ordine e grado” l’insegnamento dell’educazione alla cittadinanza come materia autonoma. L’intenzione è senza dubbio lodevole: queste iniziative sottolineano la rilevanza della scuola nel percorso di formazione del “buon cittadino”, anche se viene a tratti il dubbio che si tenda più a delegare alla scuola quanto in fondo si teme non possa essere realizzato anche dalle altre formazioni sociali in cui bambini e ragazzi si trovano a vivere gli anni della loro crescita.
Al netto delle buone intenzioni, ad ogni modo, simili iniziative sollevano almeno due ordini di perplessità.
Una prima perplessità è di metodo, e riguarda la dinamica della relazione tra istituzioni scolastiche e società. È certamente vero che le finalità ultime dei percorsi di educazione e formazione debbano rispondere a una dimensione sociale: la scuola, cioè, esiste e opera in quanto risponde a esigenze complessive della società (o delle società) di cui è in fondo espressione. Opportunamente anche in Italia negli ultimi anni si è rafforzata l’attenzione agli aspetti di valutazione e rendicontazione sociale delle scuole, segno che è sempre più condivisa – dentro e attorno al mondo dell’istruzione – l’idea che le scuole debbano rispondere del proprio operato alla società e che questo rispondere passi attraverso una trasparente verifica della rispondenza tra obiettivi assegnati e risultati conseguiti.
Un quadro quale quello attuale, in cui (semplificando al massimo lo schema) la società assegna dei compiti e degli obiettivi alle scuole e queste rispondono del modo e della misura in cui hanno ottemperato al loro mandato sociale, presuppone tuttavia che alle scuole sia riconosciuta un’ampia autonomia operativa: non più punti di erogazione di un servizio centralmente determinato, dovrebbero essere le singole istituzioni scolastiche a definire nel dettaglio le modalità di realizzazione del mandato ricevuto.
Nei riguardi della scuola, tuttavia, si assiste a una propensione interventista sempre più esplicita e, quasi, data per scontata: pare insomma che sia normale intervenire non soltanto nel dibattito su compiti e finalità, ma anche nella definizione di modalità e processi di dettaglio, temi che in un sistema di istruzione fondato sull’autonomia delle scuole dovrebbero essere affrontati all’interno di ciascuna istituzione scolastica, chiamata a definire – nel quadro ampio delle regole comuni – le modalità più opportune per raggiungere gli obiettivi e svolgere i compiti che le sono assegnati. E questa propensione interventista si traduce ai diversi livelli tanto nei consueti tentativi di dettare la linea alle scuole ad opera ora di questo, ora di quell’opinionista più o meno blasonato, quanto nelle molteplici proposte di introduzione di insegnamenti che curiosamente (ma non casualmente) hanno tutti in comune il fatto di iniziare con la parola “educazione”: educazione alla cittadinanza, educazione alla salute, educazione alimentare, educazione ambientale, educazione sessuale…
Da qui la prima ragione di perplessità di fronte a proposte volte a introdurre un’ora di insegnamento dedicata a questa o a quella materia, cui far corrispondere l’introduzione di questi o quei “contenuti” nei “programmi di studio” e da là, si immagina, nella testa degli studenti.
Il rischio è che la scuola ne venga strattonata ora in una direzione, ora in un’altra, a seconda del momento politico, delle discussioni in atto, degli umori di un’opinione pubblica la cui capacità di discernimento e riflessione, per giunta, appare in questi frangenti alle prese con una crisi su più livelli e di difficile risoluzione. Se davvero dovessimo affidare a questa modalità di decisione il funzionamento delle nostre scuole, finiremmo col perdere di vista un disegno complessivo che deve poter scaturire invece da una riflessione e una progettualità di medio-lungo periodo tenuta al riparo da sollecitazioni episodiche certo operate in buona fede, ma in fondo estemporanee e prive di consapevolezza e competenza circa la natura dei delicati organismi su cui vorrebbero innestarsi.
La seconda ragione di perplessità è più specifica e riguarda propriamente il tema dell’educazione civica o alla cittadinanza. La formazione del cittadino è senza dubbio (una delle) finalità ultime della scuola, meglio se perseguita nella consapevolezza che non nella sola cittadinanza si esaurisce il senso di un’esistenza e, in fondo, la pienezza della persona. Proprio questo risiedere tra le finalità ultime dovrebbe indurre a qualche ripensamento quanti sostengono, con legittima convinzione, l’opportunità di introdurre un’ora di educazione alla cittadinanza nei curriculi – già troppo affollati – delle nostre scuole. La cittadinanza non è un insieme di contenuti da apprendere o di abilità da esercitare, elementi minimi che possano essere ricondotti nel cerchio stretto di una materia scolastica e tradotti poi in un voto. È evidente, anzi, in questa enfasi sull’educazione alla cittadinanza come materia autonoma uno scivolamento verso l’idea che l’argomento sia davvero rilevante solo se c’è la corrispondente disciplina nell’orario scolastico e il conseguente voto sulla pagella.
Il punto, tuttavia, è che non si è buoni cittadini perché si conosce a grandi linee il funzionamento del Parlamento o si esercita il voto quando se ne presenta l’occasione. Si è buoni cittadini quando si possiedono salde quelle competenze trasversali che consentono di esprimere un giudizio fondato sulla realtà e di orientarsi efficacemente in una selva di informazioni spesso contraddittorie quando non false. Quando si dispone degli strumenti per procurarsi di che vivere onestamente e senza correre il rischio di diventare un peso per la società. Quando si acquisisce la capacità di imparare non soltanto tra i banchi di scuola, ma per tutta la vita e facendo tesoro di ogni apprendimento (formale, non formale, informale) sia dato di acquisire nei molteplici contesti in cui si svolge la nostra esistenza. Gli strumenti per giungere a questo profilo di buona cittadinanza sono molteplici e non possono esaurirsi e neppure riassumersi nel concentrare in un’ora di lezione settimanale (per giunta, questa una delle ipotesi in campo, sottratta ad altri insegnamenti di ambito storico-sociale) “lo studio della Costituzione, elementi di educazione civica, lo studio delle istituzioni dello Stato italiano e dell’Unione Europea, diritti umani, educazione digitale, educazione ambientale, elementi fondamentali di diritto e di diritto del lavoro, educazione alla legalità, oltre ai fondamentali principi e valori della società democratica, come i diritti e i doveri, la libertà e i suoi limiti, il senso civico, la giustizia” (così l’art. 3 della proposta di legge di Anci). Il rischio di una simile proposta è, paradossalmente, quello di ridurre l’educazione alla cittadinanza a una serie di contenuti da delegarsi alla responsabilità di un singolo docente: è però evidente proprio dalla lettura delle tematiche che dovrebbero essere affrontate nell’ora di educazione alla cittadinanza la trasversalità delle questioni che vi si vorrebbero affrontare: trasversalità che non può essere affidata a un singolo insegnante, ma impone il corresponsabile concorso di tutto un consiglio di classe e dell’intera istituzione scolastica.
È senza dubbio vero che le scuole, insieme alle famiglie e agli altri corpi sociali, debbano contribuire a far crescere senso e consapevolezza civica in ogni bambino e ragazzo. Occorre tuttavia abbandonare l’idea molto risorgimentale del “fare gli italiani” tramite la scuola e dirsi francamente che non ci sono scorciatoie sulla strada dissestata della piena cittadinanza. Serve piuttosto farsi carico di un lavoro di lungo periodo, con paziente lungimiranza, perché i molteplici corpi sociali che i nostri bambini e ragazzi attraversano negli anni della loro crescita diventino luoghi nei quali – a partire dall’incontro con figure adulte credibili – si acquisiscano strumenti di consapevolezza civica e, soprattutto, si vivano positive esperienze di cittadinanza attiva. Non è questo un impegno al quale si possa rispondere con un’ora settimanale di lezione, che rischia di trasformarsi in un alibi, perché parliamo del funzionamento stesso della nostra società come luogo delle garanzie di libertà e pieno rispetto della persona: questioni che faremmo male a pensare di poter risolvere una volta per tutte.