Caro direttore,
è molto interessante e condivisibile l’articolo di Annamaria Indinimeo pubblicato oggi su queste pagine. Davvero il ministro Bussetti (ma in questo è del tutto in linea coi suoi predecessori) “pare non rendersi conto che il sistema è vicino al collasso”. Un collasso che forse, finché lo Stato italiano non dichiarerà la bancarotta, sarà solo qualitativo, tuttavia non per questo meno grave.
Come è apparso evidente sin dalle prime battute dopo la sua nomina a ministro e come confermato nel suo recente intervento al Meeting di Rimini, Bussetti manifesta una convinta impostazione centralista e filo-ministeriale. E’ inevitabile dato il ruolo ricoperto? E’ una maschera che copre ben altri pensieri sulla situazione della scuola italiana? E’ un atteggiamento dovuto alla difficoltà di conciliare concezioni e posizioni piuttosto diverse sul tema scuola-educazione fra gli schieramenti politici che condividono la responsabilità di governo?
Forse sì, ma non lo sappiamo per certo e forse non lo sapremo mai; resta il fatto che sino ad oggi le proposte formulate per far funzionare meglio la macchina dell’istruzione italiana somigliano molto ad armi spuntate, assolutamente inefficaci per aggredire il problema di fondo. Come se si volesse curare un grave tumore, che sta facendo morire l’ammalato, con prodotti di erboristeria.
Di più: pare che Bussetti intenda rivedere il sistema di finanziamento alle scuole paritarie, andando a sostenere solo chi “produce un’ottima qualità dal punto di vista dell’offerta formativa” (ma cosa si intende per “ottima qualità”? e chi è che la valuta, con quali criteri?), dando una ulteriore spallata al sistema delle scuole non statali nel nostro paese e mortificando ancora di più la libertà di scelta educativa delle famiglie. Si veda, al riguardo, l’ottimo intervento di qualche giorno fa di Pierluigi Castagneto.
Certamente deve essere stroncata la piaga dei cosiddetti “diplomifici” — che comunque sono uno “zerovirgola” sul totale delle scuole paritarie italiane —, però non si può, per questo, rischiare di ridimensionare ulteriormente un settore del sistema di istruzione (forse l’unico) che conserva ancora una certa vivacità ed efficacia educativa/formativa.
Qual è dunque il problema di fondo della scuola italiana? Lo ripetiamo ancora una volta: il centralismo.
Alcuni anni fa Michele Boldrin, studioso italiano di teoria della crescita economica, progresso tecnologico e macroeconomia, docente alla Washington University di St. Louis, nonché editor associato di varie riviste internazionali, sbigottito di fronte alla miscela esplosiva di statalismo, sindacalismo, inefficienza e confusione in cui versa la scuola italiana, scrisse un articolo (“Forse c’è un’altra strada”, Il Fatto Quotidiano, 3 settembre 2010) in cui affermava che per farla funzionare occorre “decentralizzare per davvero le decisioni di assunzione e impiego del personale (…), trasformare ogni scuola in una cooperativa di insegnanti a cui lo Stato dà in concessione (a un prezzo che copra l’ammortamento) le strutture fisiche”; lasciare al soggetto gestore la facoltà di decidere “chi assumere (e a che condizioni), chi promuovere, premiare o licenziare” e di vendere i propri servizi ad un prezzo maggiore se si offre un servizio di alta qualità.
Per gli alunni propose “Buoni scuola uguali per tutti gli studenti, finanziati con le imposte e spendibili nella scuola di propria scelta”. Insomma, sottolineava con forza Boldrin, “ciò che conta è il finanziamento pubblico dell’istruzione, fattore di progresso economico e uguaglianza sociale, non la sua gestione diretta. Che come l’esperienza dimostra, porta spesso a inefficienze e assurdità”. Al Miur resterebbe l’importante compito di indicare, con programmi “minimi e uniformi a livello nazionale” — arricchiti da “aggiunte volontarie locali” —, gli obiettivi formativi fondamentali e di valutare la qualità dell’insegnamento.
Una ricetta che era e rimane tuttora una vera rivoluzione e che finirebbe per liberare risorse a favore degli “insegnanti capaci e volenterosi”, oltre che degli alunni e delle loro famiglie. Una rivoluzione che, almeno in parte, non è una proposta totalmente nuova e mai esplorata nel nostro paese. Nel 1997 l’allora ministro della Funzione pubblica, all’interno di una articolata legge per il decentramento amministrativo, introdusse il concetto di “autonomia scolastica”; la cosiddetta “legge Bassanini”, di fatto, traduceva in norme la consapevolezza ormai diffusa (dati i malfunzionamenti noti a tutti) che era assolutamente necessario passare da un sistema rigidamente centralistico, ingessato e, dunque, inefficiente, ad uno più snello ed efficiente, centrato maggiormente sulla responsabilità dei diretti operatori.
Da allora, mentre in alcuni ambiti sono stati fatti dei passi in questa direzione, nella scuola l’autonomia resta ancora largamente sulla carta, nonostante le dichiarazioni di principio e le concessioni di facciata. Tant’è vero che alla domanda posta da un dirigente di scuola statale, in occasione dell’incontro del Meeting, che sottolineava la necessità di incrementare l’autonomia delle scuole a tutti i livelli, il ministro ha risposto magnificando il livello di autonomia esistente, che consente ai dirigenti di interagire e negoziare col territorio, e che non è necessario ampliarla ma casomai farla funzionare meglio. Discorso chiuso.
Peccato. Se provasse a seguire i consigli del prof. Boldrin, Bussetti potrebbe passare alla storia come il ministro che ha fatto risorgere la scuola italiana. Certo, dovrebbe lottare strenuamente contro un sistema ormai fossilizzato che non vuole alcun cambiamento reale, ma ne avrebbe merito per l’eternità. Se continua così, invece, temiamo che finirà per essere inserito nel lungo e triste corteo dei grigi funzionari della Repubblica che la scuola l’hanno accompagnata al camposanto.