Qualche giorno fa sono andato al parco con il mio nipotino di un anno e mezzo: dopo un breve tragitto con la brum — la mia macchina fa un rumore diverso da quello del trattore ande che taglia i prati intorno a casa, che ha qualche erre e qualche u in più — lui si immaginava il mam, quel mare che fino a qualche giorno fa ci aspettava alla fine del piccolo viaggio tra gli alberi da cui potevano comparire gli aaammm, orsi grandi nascosti dietro la curva. Certo mi dispiace doverlo deludere, fargli scoprire che dopo il caldo della macchina non c’è la sabbia della spiaggia, la babba con la etta vedde, la paletta verde; non c’è il secchiello con il suo pesciolino blu che non fa ppppp, ma si chiama proprio così, ppppp, quasi come un bacio che lui ha imparato guardando i pesciolini del suo acquario. Ma è pur sempre meglio qui, nel parco con l’altalena, la tan che va in atto fino al cielo, piuttosto che già sulla porta del nido che lo aspetta tra qualche giorno quando riapriranno tutte le scuole del mondo e dove dovrà andare perché mamma e papà lavorano. Ma anche i nonni, perché la legge dice così, che siamo giovani sempre. E la mia schiena, mentre spingo il piccolo astronauta sulla tan, o rincorro sul galeone di legno con scivoli e scale questo piccolo pirata che si nasconde, mi sembra invece che dica di no.
Comunque: intorno ci sono gruppi di ragazzini con biciclette e palloni, alcuni stanno seduti su grandi teli sotto le piante, altri si rincorrono su un campo da basket, incuranti del sole che picchia sopra di loro. E mentre il mio nipotino continua a snocciolare il suo vocabolario di onomatopee insegnandomi che non sono mica cose difficili, ma sono proprio il primo nome che noi diamo alle cose, quei ragazzi sciorinano invece tutto il patrimonio di metafore e metonimie e sineddochi che hanno imparato alle scuole: testa di qui, testa di là; pezzo di giù, pezzo di su; quando passa una ragazza gridano che è bella, ma lo dicono nominando, diciamo così, la parte per il tutto. Appunto dimostrando conoscenze di retorica ampie e consolidate. Come vogliono le indicazioni curricolari della scuola elementare, come recitano tutte le programmazioni verticali tra scuola elementare e media.
Sì, perché questi giovanotti qui avranno l’età di quelli che mi arrivano in classe tra pochi giorni; magari qualcuno di loro sarà davvero sui banchi della mia scuola a intraprendere quello che Raffaela Paggi su queste stesse pagine ha chiamato il passaggio dall’infanzia alla giovinezza. Insomma, qualcuno di loro si ritroverà come professore questo nonno che sta imparando di nuovo il valore assoluto delle onomatopee dal suo nipotino.
E cosa gli insegno, se sanno già tutto? mi viene da pensare. Com’è che passano dall’infanzia alla giovinezza, questi qui, che hanno il mondo stretto in mano, dentro il cellulare; che ci hanno visto dentro cose che noi umani nemmeno possiamo immaginare; che sanno già tutte le regole del gioco e hanno già imparato a farsene beffe? Ma sarà proprio vero? Guardali, li conosco da quarant’anni quelli che arrivano impauriti dalle elementari: sono così diversi questi qui che adesso mi corrono intorno e arriveranno sui banchi? Sanno già tutto? E’ proprio questo il bello, mi dico: che, come me, credono di sapere già tutto. Ma poi arriva un gigante di un anno e mezzo e ricomincia a chiamare il mondo a modo suo; ti fa vedere cose che non vedevi più; ti fa riscoprire segreti dentro l’acqua e dentro il cielo; ti insegna a camminare tenendo la mano a qualcuno. Mica parole, mica tweet o wathsapp, insomma, cose vere.
Ecco cosa dovrei fare con loro dal primo giorno di scuola: fare quello che il mio nipotino fa con me. Prenderci per mano; vedere quello che non si vede in superficie; capire che il nome viene dalle cose, dalla gioia profonda o dal dolore che ci fanno; che conoscere vuole dire abbracciare; che diventare amici richiede un lavoro, un addomesticarsi reciproco e lungo; che le cose e la verità vengono prima delle parole e della forma. E che in questa scoperta altri, che si chiamino Leopardi o Newman, Einstein o Dante, ci hanno preceduto e continuano oggi insieme a noi. Mi piacerebbe che fosse così, che questo passaggio dall’infanzia alla giovinezza avvenisse proprio senza dimenticare l’infanzia, anzi tornandoci dentro fino al collo con la stessa intensità incantata che il mio nipotino vive e mi insegna.
Ha ragione Sebastiano Aglieco quando dice di sé e di ogni maestro, in una poesia del suo ultimo libro Infanzia resa: “Non c’è più tempo per dire le cose necessarie/ devo dirle adesso e non mi fermo davanti al/ teatro delle loro parole/ devo essere sincero e sprovveduto/ finito nel castigo del grande abbandono”.
E mi accorgo che in fondo questo è un altro modo per dire quello che la Paggi nel suo articolo aveva già detto essere il segreto per accompagnare questi ragazzi: “suscitare interrogativi, offrire le parole per formularli, mantenerli desti anche quando non si trovano risposte facili e immediate, sfidare i ragazzi a proporre risposte, non disincarnate, ma che scaturiscano dalla riflessione sull’esperienza e sui contenuti di studio”.
Comincerò, allora, anche quest’anno dal silenzio. Li guarderò in faccia e farò loro, e a me, questa domanda: che ci faccio qui? Prenderemo carta e penna e scriveremo, io e loro, la nostra risposta. E cominceranno le altre domande, quelle a cui non potremo sottrarci, quelle che raccontano il nostro essere uomini. Cominceremo a smascherare le parole, a togliere loro la polvere di dosso, a dare loro carne e consistenza, come voleva Ungaretti.
Comincerà la scuola. Intanto adesso riprendiamo la brum e non ci sarà il mam ad aspettarci. Ma il Leo è contento anche così, perché torna a casa dalla mamma. Che a pensarci bene è una parola che ha lo stesso suono del mare. Chissà come se la ride lui, che continua a scoprire che non lo sapevo, che in fondo non so proprio niente e devo ricominciare sempre tutto dall’inizio.