Volendo tentare un primo bilancio di questi pochi mesi di gestione della scuola italiana da parte di questo governo, credo che si possa sintetizzare così: non si vede un’idea sulla scuola e sul suo futuro.

“Perché – qualcuno potrebbe legittimamente chiedere – guardare al futuro quando la scuola oggi ha tanti problemi di gestione ordinaria?”. Perché la gestione ordinaria non è banale amministrazione, ma esige, specie là dove si vuole innovare, una visione, una prospettiva in base alla quale fare le scelte “ordinarie” e preparare quelle future.



Già il famoso contratto giallo-verde mostrava questa debolezza, per la povertà e contraddittorietà delle proposte. Ma le circolari emanate, le leggi approvate e le scelte amministrative fatte sembrano rafforzare questa debolezza, poiché non solo non affrontano con risposte valide le gravi difficoltà della povera scuola italiana, ma (è pretendere troppo?) non mostrano neppure di saperne cogliere i problemi.



Le scelte della legge di bilancio hanno mostrato quest’assenza di prospettive, visto che la scuola è praticamente assente sia da investimenti che da innovazioni, avviando solo piccoli aggiustamenti per soddisfare limitati settori di interesse.

Primo fra tutti sta il dramma del lavoro giovanile, con una delle quote di disoccupazione più alte in Europa e, paradossalmente, con migliaia di posti di lavoro che non trovano tecnici in grado di coprirli. L’aver praticamente smontato l’unica vera grande novità nella scuola degli ultimi vent’anni (l’obbligo finanziato dell’alternanza scuola-lavoro) è segno di quest’assenza di vedute. Certo che si poteva migliorare molto del modo in cui la Buona Scuola renziana l’ha introdotta: ma persino la parola “lavoro” sparisce dalla controriforma varata. Abbandonare il numero di ore alla “autonomia scolastica” è poi un gioco bizzarro, neppure tanto coperto dal dimezzamento delle risorse. Ma non si doveva investire sui giovani?



E poi l’autonomia. L’impressione è che questo governo non riesca a immaginare una scuola dell’autonomia come vera risposta ai problemi attuali e, quindi, usa questa parola nei modi più deteriori e proni agli interessi di settore (certo sindacalismo e movimenti giovanili), che in questi due anni hanno contrastato l’alternanza della Buona Scuola.

Allo stesso modo il mondo sindacale ha salutato con gioia l’eliminazione della chiamata diretta dei docenti da parte dei dirigenti scolastici: forse innovazione timida e un po’ scalcagnata, ma comunque unico inizio di autonomia delle scuole nella gestione del personale. Sempre in tema di chiusura verso l’autonomia scolastica, diverse forze hanno chiesto e in pratica ottenuto l’eliminazione della commissione ministeriale istituita dal ministro Fedeli sui costi standard, chiamata a ridisegnare un nuovo sistema di finanziamento di tutta l’istruzione in Italia, sulla base di princìpi di autonomia e responsabilità.

Infine, la legge di bilancio resta nell’ottica ristretta, perseguita purtroppo da tempo, della scuola come costo e non come investimento sociale; la stessa ottica che, nel quotidiano, spinge spesso le famiglie italiane a scegliere la scuola più vicina, invece che investire sacrifici sulla scuola migliore per i propri figli. La legge non ha investimenti sulla scuola, ma solo tagli. Valutazione non mutata certo dal significativo aumento di stipendio per i dirigenti scolastici: rimedio a una decennale mortificazione, che proviene però da una contrattazione che si trascina da tre anni.

Sugli interventi del ministro Fioroni si parlava di “cacciavite” per giustificare l’idea di piccole modifiche che rinunciavano a grandi riforme. Purtroppo quel cacciavite ha “riavvitato” ben poche cose e ne ha trascurate parecchie. Anche il ministro Bussetti, per le stesse ragioni, si è detto contrario a grandi riforme. Ma se rinunciare a grandi disegni astratti è segno di realismo, è invece elemento di inganno far credere che interventi limitati di cambiamento non esigano una chiara visione complessiva della scuola, della sua crisi e delle vie d’uscita necessarie.

In questa prospettiva si può certo sostenere che fosse sacrosanto rivedere completamente i vari Ssis, Tfa e Fit con cui le università in questi anni si sono accaparrate aumenti di iscrizioni, aumentando anni e numero di esami per giungere all’abilitazione per l’insegnamento. Tuttavia l’eliminazione del Fit fatta dalla legge di bilancio è priva di qualsiasi visione complessiva e resta nella vecchia logica idealistica: per insegnare occorrerebbe soprattutto il sapere disciplinare, senza alcuna interrelazione con le scuole, senza tirocini ed esperienze culturalmente guidate, come avviene per esempio negli Iufm (instituts universitaires de formation des maîtres) francesi.

Alla fine quella del governo è una scelta che potrà soddisfare i laureati, con tre anni in meno per avere un posto di ruolo a scuola; ma resta una scelta priva di una visione dell’insegnamento come professione specifica e senza una risposta seria alla necessità di docenti preparati alle nuove sfide culturali e sociali.

Unico elemento positivo della norma è l’obbligo del vincitore di concorso alla stabilità per quattro anni nella prima scuola di nomina. Ma poi riparte il grande carosello.

Non credo che questo tipo di scelte, come tutte quelle mirate a eliminare la Buona Scuola, siano ispirate dal rendere più facile i percorsi dell’istruzione: si tratta invece di una povertà di visione, che sta generando interventi di corto respiro, a sostegno di accomodamenti elettorali verso vari settori di interesse.