“È come se Dio ti avesse dato qualcosa. Tutte quelle storie che ti vengono in mente… Dio ha detto: ‘questa è roba tua, cerca di non sprecarla’. Ma i ragazzini sprecano tutto, se non c’è qualcuno che li tiene d’occhio. E se i tuoi vecchi sono troppo incasinati per farlo, dovrei farlo io, forse!”



Questa è una delle battute del film Stand by me (1986) e la pronuncia Chris, un ragazzo di 12 anni che decide, insieme ai suoi amici e coetanei Gordon, Teddy e Vern, di partire dalla piccola cittadina di Castle Rock in cui vive per trovare il cadavere di un altro ragazzo e si incammina con loro lungo la ferrovia iniziando la più grande, indimenticabile avventura della sua vita. È la loro ultima estate insieme in attesa del liceo, il loro ultimo passo da preadolescenti prima di entrare nel mondo dei giovani più grandi che, bulli e violenti, nel film non fanno una gran bella figura.



Il film è una grande e commovente storia di formazione e mette bene in evidenza le caratteristiche complesse e affascinanti dell’età preadolescenziale, che forse potrebbero essere sintetizzate proprio nel senso ultimo della riflessione di Chris: la preadolescenza è quel momento quasi “mistico” in cui si percepisce per la prima volta nella vita di essere chiamati ad un compito e a non “sprecare” la vita, avvertendo sia la responsabilità personale di rispondere a questa chiamata misteriosa sia, allo stesso tempo, il bisogno di un aiuto dei grandi che spesso, però, non arriva. Al contrario, gli adulti sembrano spesso contrastare l’impeto con cui il ragazzo si lancia entusiasta verso il futuro, come accade nel racconto “Il Colombre” di Dino Buzzati dove un altro dodicenne, Stefano Roi, viene distolto dalla sua passione per il mare dai pregiudizi degli adulti che si trova ad avere intorno, padre compreso.



Negli stessi anni di Stand by me, gli anni ottanta, l’Associazione Cospes svolse una ricerca nell’universo preadolescenziale che pubblicò con il titolo “l’età negata”. Questa espressione, che ha fatto scuola nella terminologia psico-socio-pedagogica e che forse suona un po’ troppo negativa e ad effetto, ebbe un valore provocatorio positivo e l’inchiesta suscitò l’attenzione degli studiosi e degli educatori su questo periodo della vita di una persona che va grosso modo dai 10/11 ai 14 anni. Un’età “negata” quella descritta dall’inchiesta perché ad essa il mondo adulto conferisce scarso riconoscimento reale sul piano sociale ed educativo, considerando i ragazzi che si trovano a viverla come ancora troppo piccoli e infantili, oppure come già dei piccoli adulti.

Il risultato è che gli adulti si distaccano dai preadolescenti o respingendone, un po’ impauriti e a volte violenti, le prime chiare rivendicazioni di indipendenza e identità, giudicate troppo precoci e capricciose; o considerando ormai esaurita la propria responsabilità educativa disimpegnandosi e affidandoli quasi completamente alle altre cosiddette “agenzie” educative, in primis la scuola.

La preadolescenza sembra così una sorta di “limbo”, compressa tra infanzia e adolescenza, senza una precisa identità, terra di mezzo senza valore proprio e originalità.

Niente di nuovo, si dirà. Si potrebbe anche pensare che in tutti questi anni le cose siano cambiate e che ci sia una maggiore conoscenza ed un più serio riconoscimento dell’età preadolescenziale, grazie all’enorme mole di studi e inchieste, unitamente alla ricca esperienza educativa nella scuola secondaria di primo grado. Ma non è così evidentemente, come si ricava per esempio dal recente bel documentario Non più, non ancora nel quale vengono intervistati 123 preadolescenti che, lasciati liberi di esprimersi, raccontano il loro triste disagio di sentirsi definiti e trattati dai grandi “in base a ciò che non sono” (Ilaria Venturi su repubblica.it, 29 dicembre scorso). Ignorati dagli adulti a cui pure sono affettivamente legati, bullizzati dai più grandi, spaventati dal futuro e dalle prime storie amorose, insofferenti verso una scuola che sembra suscitare in loro nient’altro che noia o una competitività fine a se stessa, in cerca di una libertà che pure temono, spesso umiliati per il loro metamorfico corpo e soprattutto pieni di domande che non sanno a chi rivolgere, questi ragazzi appaiono come l’espressione di una giovane, vasta umanità sofferente, e però sommersa, che noi adulti prendiamo fugacemente in considerazione solo in occasione di fatti terribili come quello di Corinaldo, magari per scandalizzarci dei loro gusti musicali e delle loro mode e/o spaventarci per l’accaduto.

Non più, non ancora è un film che va visto e diffuso tra gli adulti a mio avviso. Infatti, questo tenero ma crudo documentario ci scuote dal nostro individualismo, ci invita ad interessarci della parte forse più debole e abbandonata delle nostre giovani generazioni e ci suggerisce anche la prima mossa di una rinnovata relazione educativa: l’ascolto.