Che bel periodo viviamo, ogni giorno un’idea meravigliosa. Fra queste è riapparsa, grazie all’azione di alcuni parlamentari che presumiamo esperti di didattica tra cui l’ex ministra Gelmini, quella di vietare in tutto o in gran parte l’ingresso di cellulari e simili dentro le scuole. Sentivo alla radio un diluvio di commenti entusiasti: ah sì, grande idea, signora mia, non si sa più come fare con questi qui, mica come ai nostri tempi che i telefoni non c’erano e in classe nessuno si distraeva… Che poi tali commenti vengano perlopiù “uazzappati” tra i vari social-gruppi delle mamme, vabbè.



Anticipo un paio di disclaimer. Primo: come prof, ho la fama del bounty killer dei cellulari sottobanco; per fortuna, non sono imbranato come i nativi digitali e me la cavo bene anche a sgamare le frasi copiate da Wikipedia o peggio. Quindi, ho la coscienza a posto. Secondo, entro abitualmente a scuola con il tablet e il mio vecchio smartphone, e per di più quasi sempre li tengo connessi: perché semplicemente servono.



Il telefono, in primis, serve per le telefonate: anche di servizio o come cercapersone (se lavori in una scuola che si sviluppa su sette piani lungo 400 metri, tra aule e laboratori, la cosa ha senso). Capita solo ogni tanto, ma quando serve è più pratico che col piccione viaggiatore. È plausibile rinunciarci, visto che oltretutto pago io per tenermi a disposizione della ditta?

In più l’oggetto è smart, permette di fare tanto altro, e tra questo ci sono dei reali obblighi di servizio, che magari sfuggono a chi da un po’ non frequenta le scuole. Quanti sono i ministri che hanno insistito per l’informatizzazione? In modo prima un po’ naïf, poi efficace e produttivo, come per il registro elettronico che, alla faccia di tutti i luddisti, si dimostra un gran vantaggio per la scuola, gli alunni e le famiglie. È appena il caso di ricordare che, almeno nella maggior parte degli spazi che non hanno un pc stabilmente collegato, per svolgere le più classiche parti del lavoro, dall’appello alla registrazione dei voti o delle note, io sono tenuto a usare il mio apparecchio, identificato dalla rete interna. Le scuole si sono adeguate con onerosi investimenti sui software o sulle reti wifi: mi spiegate la possibile alternativa, escludendo il ritorno alla matita copiativa?



Abbiamo provato a mettere a disposizione in ogni aula un terminale leggero (tipo tablet): costoso, inefficace, abbandonato. Funziona invece la logica “Byod”: bring your own device, per dirla all’americana. Se ogni soggetto privato (studente o docente) è disposto a spendere dei soldi per avere un apparecchio aggiornato ed efficiente, che lo soddisfa e di cui si fida (perché ci mette le mani solo lui), chi – a parte qualche brezneviano – può pensare che abbia senso rinunciarvi e affidarsi a quel che passa il piano quinquennale? Perché un conto sono i laboratori multimediali o l’hardware di servizio di qualche apparecchio, sul cui aggiornamento val la pena di investire le magre risorse della scuola, un altro è l’attività ordinaria in ogni spazio e momento.

L’importante è che, normalmente, durante gli altri 50 minuti della lezione, il device stia muto, o in modalità aereo – il mio come il loro. E il posto migliore è proprio sopra il banco: a faccia in su, così si vede se è scollegato oppure se lampeggia. Niente educa più della trasparenza. Se lo vuoi usare per qualcosa di utile, lo fai davanti a tutti, se lo fai di nascosto, sei disonesto e sarai punito. Non lo usi per i filmatini scemi, ma puoi fotografare una lavagnata di formule – grande vantaggio non solo per un Dsa – o il foglio della verifica corretta, da mostrare alle famiglie evitando l’andirivieni cartaceo di originali o fotocopie. Lo stesso vale per il registratore audio. Strumenti utili nelle aule, formidabili in laboratorio, basta rispettare regole e buona educazione.

Penso al cellulare come al coltellino svizzero (altro aggeggio molto comodo con cui però ci si può fare del male, in fondo). Su telefono e tablet ho decine di utensili che semplificano e rendono più efficace anche la didattica. Per esempio, insegno teoria ed elaborazione del colore: ecco mezza dozzina di app che consiglio anche agli studenti. Se porto le mie vecchie fotocamere, ho l’esposimetro, il telemetro e strumenti vari. Altre app, come quelle di astronomia o di geolocalizzazione, a me in aula non servono, ma ad altri colleghi sì. Insieme a quelle comode per chi insegna lingue, informatica o religione, dizionari e manualistica inclusa. E se nell’aula l’impianto audio/video non è all’altezza delle tue cuffiette, a volte ti connetti per fare Clil con un filmato su YouTube. Per non dire di Twitter, che ti dà pure ottimi spunti di aggiornamento.

Anche il coltellino ha molte punte che usi raramente (e se ce l’hai sempre tra le mani per giocarci non dai l’aria di uno che sta bene): ma nel momento in cui ti servono, sono lì. Tutte queste meraviglie le dobbiamo lasciare in portineria, o nell’ipotetico armadietto che dovrebbe custodire e raccogliere i terminali di studenti e personale, quando possono essere così utili se le abbiamo pronte sul banco? Che poi, da noi quell’armadietto dovrebbe avere oltre 1.600 caselle lucchettate, e non so se ridere o piangere: forse assumeranno dei vigilanti h24.

Non ho citato nessuna delle app del signor Zuckerberg, peraltro, che per la stragrande maggioranza degli studenti, dei loro genitori e di qualche brillante legislatore sono la principale se non l’unica ragion d’essere dello smartphone: non le ho né le avrò mai, e consiglio agli studenti di fare altrettanto.

Perché chi vuol combattere l’abuso di questi strumenti ha sacrosante ragioni a essere impaurito dei danni agli occhi, alle falangi e soprattutto al cervello di tanti ragazzi tecnodistorti, in una fase delicata del proprio sviluppo fisico e mentale. Anch’io ne sono realmente preoccupato. Ma i genitori dovrebbero vietarne o limitarne l’uso nelle altre 18 ore del giorno che passi fuori dalla scuola, e comunque a tutti i minori di 15 anni, anziché fare i puritani proibizionisti nel momento in cui affidano la prole ai docenti e se ne lavano le mani.

Già, il proibizionismo, il lato ideologico ed estremistico della faccenda. Con questi ingestibili ukase, cosa cercano i fieri emuli di Licurgo? Evitare che lo studente si distragga dalle lezioni o usi il cellulare per copiare? Se un insegnante chiede seriamente il rispetto di semplici regole come quelle che dicevamo, già oggi esistenti, lo si contiene entro termini fisiologici. O invece pensano che la scuola debba essere solo un posto in cui il docente legge noiosamente le pagine di un libro, per consumare un rito estraneo alla realtà? Fosse mai stata vera questa concezione grottesca, non dimentichiamo che esiste il fenomeno fisico dell’effetto tunnel (…no, non “quel” famoso tunnel…), per cui in certe condizioni un oggetto riesce a passare al di là di una barriera apparentemente insormontabile. Nella metafora, qualsiasi ostacolo possiamo imporre per chiuder fuori i cellulari, sicuramente le persone corrette e rispettose delle regole obbedirebbero, perdendone i possibili vantaggi, mentre chi se ne frega (e se ne vanta per fare il bullo del gruppetto) continuerebbe alla faccia di docenti e legislatori: che grande successo educativo.

Ma soprattutto, è così difficile da prevedere? Perché, a dirla tutta, la generazione di questi proibizionisti è quella degli studenti che vedevo nelle mie prime comparsate da universitario supplente; a volte insegno proprio ai figli di qualche mio lontano allievo. Avrei tanta voglia di raccontare cosa intercettavamo allora, sotto il banco di mammà e papà. O di qualche personaggio che nel frattempo ha fatto carriera politica e magari è pronto a votare per gli intransigenti divieti. Per poi vantarsene sui social, chiaro.